Una piantina che spunta dal cuore della Sicilia e cresce rigogliosa verso il cielo. È il simbolo scelto dall’istituto comprensivo di Palermo dedicato a Rita Atria, la prima scuola in Italia intitolata alla ragazza di Partanna di Trapani che scelse di raccontare al giudice Paolo Borsellino tutto ciò che sapeva sulla mafia del suo paese, venne rinnegata dalla famiglia e poi si uccise quando il "suo" giudice fu massacrato nella strage di via D’Amelio. Quel logo è stato pensato e realizzato da un ragazzino delle medie che ha fratelli e zii in carcere, che ha respirato illegalità fin dall’infanzia, ma per il quale c’è ancora una speranza. Come c’è per tutti gli alunni dell’istituto che dall’anno scorso riunisce quattro popolosi plessi del centro storico, stritolati dal degrado. «La scelta di intitolare a Rita l’istituto è stata una decisione chiara – dice la preside Marisa Cordone –. Questa ragazza sarebbe potuta essere una nostra alunna e non dobbiamo mai dimenticare che la scuola si deve sempre muovere sul sentiero della legalità e del vivere civile». Perché fare scuola nel centro storico di Palermo è molto di più che insegnare a leggere e a scrivere. È dare ai ragazzi gli strumenti culturali per vivere una vita sana, opponendosi ai tentacoli dell’illegalità. Marisa Cordone ha scelto il centro storico con consapevolezza. Dopo quindici anni di insegnamento alla scuola media D’Acquisto, ne è diventata preside, ereditando l’elementare Turrisi Colonna, davanti alla moschea, il plesso Valverde e la scuola media del Conservatorio. Un popolo di oltre 900 studenti, di cui uno su tre di origine straniera, in testa Bangladesh, Ghana, Mauritius, Cina. Ma molti di loro non raggiungono il successo scolastico. La dispersione arriva al 20% e le forze per arginarla non bastano. «Abbiamo avviato col Comune il progetto Pedibus, individuando sei genitori che ogni mattina si incaricano di andare a prendere a casa i bambini che tendono ad arrivare in ritardo o non vengono affatto - spiega la dirigente -. Qui ci sono ragazzi che credono di non avere futuro, che si rassegnano all’idea di diventare posteggiatori abusivi o spacciatori». Eppure chi sceglie quei ragazzi lo fa per vocazione. È stato così per Antonella Tartamella, da 25 anni insegnante in questo quartiere. Ha visto passare da quei banchi varie generazioni. Oggi omoni di trent’anni le corrono incontro e le stampano un bacio sulla guancia. «I ragazzi ti devono stimare, solo così ti seguono – racconta –. Noi cerchiamo di intessere relazioni con le famiglie, di usare il loro codice espressivo. Cerchiamo di educarli alla musica, all’arte, alla recitazione». Ma gli sforzi, per quanto grandi, da soli non bastano. «Ci vorrebbero più docenti per le scuole nelle aree a rischio, e allora – conlcude la preside –. i risultati sarebbero diversi».