(Sea Watch)
Tre bambini migranti di uno, sei e sette anni: erano tra le 32 persone soccorse il 22 dicembre dalla naveSea Watch 3 e, come tutte le altre persone, sono sopravvissuti per 19 giorni alle irresponsabilità dei governi europei, in mezzo alla burrasca e al gelo del mare d’inverno.
La più piccola è salita a bordo che gattonava, quando è scesa sulla terraferma mercoledì muoveva i suoi primi passi. Imparare a tenere l’equilibrio mentre le onde fanno sembrare la nave una giostra impazzita è un esercizio che in questa Europa le servirà. Aveva undici mesi quando è stata soccorsa dall’Ong tedesca e ha potuto sbarcare a terra qualche giorno prima di festeggiare, al sicuro il suo primo anno di vita: è stata la mascotte del bastimento carico di vite che nessuno voleva.
A turno ospiti e operatori si sono dati il cambio per sorreggerla nei suoi primi passi. Ed è stato a bordo della nave del comandante Anne Paul Lancet che la piccola ha incontrato la sua “sorellina migrante” con le treccine fitte annodate da fili coloratissimi. E per farla sentire ancora più accolta in mezzo a tutti quei bianchi dall’accento berlinese, è finita che gran parte dell’equipaggio si è ritrovato barbe e capelli riordinati in trecce africane.
E dopo 19 giorni di agonia, per chi era in mare, e un lungo vertice di chiarimento nella notte tra mercoledì e giovedì tra il premier Conte e i vice premier Salvini e Di Maio, Roma si è decisa a impegnarsi ad accogliere questa decina di vite sottratte alla morte grazie alla Diaconia Valdese, che ci metterà ogni centesimo per non far pesare l’accoglienza delle persone sul bilancio dello Stato, togliendo così ogni alibi agli untori dell’odio. «È tutto pronto per l'accoglienza – fa sapere la Federazione delle Chiese evangeliche in Italia – abbiamo diverse strutture in grado di riceverli sia in Piemonte, sia a Scicli, in Sicilia, dove accogliamo famiglie e mamme con bambini. Attendiamo di conoscerli, per ciascuno ci sarà un progetto personale», (anche se il numero esatto delle persone e i tempi dell'accoglienza ancora mancano, ndr).
Ognuno dei naufraghi ha una storia da raccontare, un passato che lo schiaccia, almeno fino a quando non riuscirà a lasciarselo alle spalle. Le interminabili traversate nel deserto; i compagni di sventura lasciati esanimi sulle piste rossastre, la faccia feroce del mercante di schiavi; la bava degli stupratori e la crudeltà degli scafisti.
Non è vero che non sapevano quale rischio stessero correndo. Il quindicenne spilungone sudanese del Darfur ha viaggiato da solo per quasi due anni e sapeva bene cosa doveva da aspettarsi. Ma poi quando le frustate ti strappano la schiena, è tutta un’altra storia, e le possibilità si riducono a un’unica scelta possibile: vita o morte. «Dovevo andarmene non avevo scelta: arruolarmi per uccidere o venire ammazzato. Meglio rischiare che morire magari dopo avere ucciso qualcun altro», dice con il sorriso contagioso di chi non ha niente di cui pentirsi. Assieme a un altro minorenne racconta di essere stato arrestato per due volte dalla Guardia costiera libica e portato in un campo di prigionia dove è stato picchiato con sbarre di ferro. Poi i poliziotti lo hanno venduto: schiavo in una fattoria fuori Tripoli, senza alcun compenso. Fino a quando il suo padrone non si è sentito sufficientemente ripagato per il tozzo di pane che gli gettava una volta al giorno, e lo ha messo su un barcone.
«Eppure sento dire che c’è chi vorrebbe rimandarci in Libia. Ma che logica è?».