(Chris Grodotski / Sea Watch)
Mentre i numerosi bastimenti carichi di merci fanno ingresso nel porto de La Valletta, il bimbo libico di sette anni li indica uno a uno. E chiede: “Mamma, perché quelle sì e noi no?”. Nessuno se la sente di dirgli la verità: da quindici giorni lui e gli altri 48 esseri umani sulle due navi umanitarie tenute lontane dai porti sono dei “rifiutati”.
Ad aspettarci sulla Sea Watch 3, la nave che nessuno vuole, ci sono anche le storie delle stragi mai rese note dai libici. Decine di migranti affogati nei mesi scorsi senza che mai ne venisse data comunicazione. Come i 60 precipitati nell'abisso che si era aperto sul fondo squarciato del gommone e mai più risaliti a galla. È accaduto nei primi giorni di ottobre, e non se ne trova traccia nelle note ufficiali. Non sarà la sola amara sorpresa a bordo della nave dei respinti che, in balia delle cancellerie europee, aspettano di poter mettere piede sulla terraferma ed essere certi che non c’è più niente da cui scappare.
Il piccolo libico insieme alla madre è fuggito di casa l’ultima estate. I frequenti scontri nelle città e una condanna a morte sulla donna decretata dal marito e dai maschi della famiglia, per ragioni che non vuol spiegare, non le hanno lasciato scelta. Ci sono voluti quattro tentativi perché finalmente si potesse lasciare alla spalle Tripoli e la vita di prima. E nel corso di uno di questi lei e il bambino, che aveva da poco compiuto sei anni, furono tra i pochi superstiti della strage di ottobre. "Il canotto si è rotto e le persone cadevano dentro", racconta ricordando d’essere naufragata non lontano dalle piattaforme petrolifere di Melita: "Sono morte più di 60 persone". Poi la solita routine, spiegata in un inglese perfetto di chi in tasca aveva una laurea e ha visto sprofondare con la guerra ogni speranza. "Siamo stati presi dalla polizia libica, sono stati cattivi. Siamo rimasti in prigione con altri stranieri e in prigione si trova il modo per convincere la polizia a lasciarci andare". Denaro e schiavitù sono la regola. Poi altri due tentativi, "sempre andati male, o la barca si rompeva o ci prendevano i militari". Infine prima di Natale la traversata e l’avvistamento della Sea Watch.
La nave, intanto, ondeggia. Ma il vento sottocosta non fa paura. E il sole promette una mattinata senza le coperte addosso. La vista della terra, se da una parte fa sentire meno soli, per l’altro verso diventa un tarlo. E ci vuole poco perché sul ponte la paura torni a bussare. Stavolta la disperazione è nello sguardo di un trentenne, anche lui libico, che non ne può più di aspettare, di raccontare ai soccorritori le sue cicatrici, di sentirsi dire che bisogna stare calmi e che tutto andrà bene. Senza neanche prendere la rincorsa, si lancia nel vuoto. Un tuffo verso la costa. Quando riemerge è già tramortito dalle acque gelide. Altri tre, di nazionalità diverse, sono pronti a seguirlo. Li vediamo mentre si liberano delle felpe. Poi si fermano. Alla terza bracciata il fuggitivo capisce che non può farcela contro il freddo, la corrente e i due chilometri che lo separano dalla terraferma. L’equipaggio lo raccoglie in un istante, dopo avergli lanciato due ciambelle galleggianti. Quando lo accompagnano sottocoperta, lui urla e piange, anche gli altri sono arrabbiati e delusi. Sono stanchi di aspettare e sono abituati a non fidarsi. "Giurateci che non ci farete tornare il Libia", ripetono mentre mostrano il dorso coperto di bruciature.
Con l’Italia, che si è offerta di accogliere madri e figli (6 persone in tutto), sono adesso cinque i Paesi europei disposti a farsi carico di alcuni dei migranti a bordo. Una prospettiva che non piace affatto alle famiglie, che sarebbero costrette a separarsi. Mamme e bimbi (tre in totale: di 1, 6 e 7 anni) verrebbero ammessi nella Penisola, mentre i papà finirebbero tra Germania, Francia, Olanda e Portogallo. Lisbona ha espresso per via informale la disponibilità a risolvere la crisi umanitaria partecipando alla redistribuzione delle persone che verranno fatte sbarcare. Ma il problema rimane il porto di destinazione. "Se l’Italia fosse stata davvero disposta ad aiutare queste persone - commenta un volontario - avrebbe dovuto offrire subito uno dei suoi porti, accelerando lo sbarco e avviando la redistribuzione nell’Ue, senza infliggere a persone già molto provate anche una permanenza così lunga e immotivata in mare e in pieno inverno”. Il governo maltese, potendo contare sull’ostinato rifiuto allo sbarco in Italia, da giorni negozia con Bruxelles un trasbordo su proprie motovedette, in cambio di garanzie sulle politiche migratorie. Assicurazioni che sarebbero arrivate e che potrebbero porre fine all’odissea già nelle prossime ore.
Dall’altro vascello, il “Professor Albrecht Penck” dell’ong Sea Eye, arrivano notizie analoghe. "Le diciassette persone soccorse il 29 dicembre - spiega Nicole, il medico di bordo - si stanno riprendendo, ma soffrono il freddo e sono deboli. È per questo che è importante che ci venga assegnato un porto sicuro che possa accoglierle". La temperatura in mare non supera i 10 gradi, alla sera si sfiora lo zero termico. Le raffiche del vento e il moto ondoso impediscono a molti perfino di dormire.
A bordo di Sea Watch venerdì 4 gennaio è arrivata una delegazione di parlamentari tedeschi, insieme a giornalisti internazionali e ai rappresentanti di Mediterranea, la missione italiana di monitoraggio nel Canale di Sicilia. Di "gratitudine, gioia, imbarazzo e tristezza", ha parlato Christiane Groeben, vice presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) salita per qualche ora per vedere di persone e fare un annuncio. "Stiamo lavorando con i nostri partner - spiega - per costruire un corridoio europeo e la città tedesca di Heidelberg e le sue chiese hanno già manifestato la loro disponibilità. Siamo pronti a farci carico del trasporto dei migranti nella loro destinazione finale e a collaborare per la loro accoglienza".
Il piccolo libico è ancora sul ponte, mentre gioca e scruta il mare intorno. Arriva il tramonto e con esso nessuna buona notizia. Prima di andare a dormire domanda ancora: "Mamma, ma perché non abbiamo un passaporto? Non potevamo prendere un aereo per scappare?".