L’EQUILIBRIO TROVATO DAI PADRI COSTITUENTIMa anche negli altri casi, l’immunità non era assoluta, ma comunque condizionata all’esame del Parlamento. Serviva dunque il sì della Camera di appartenza, per mettere sotto inchiesta un parlamentare, per arrestarlo, per perquisirlo o per intercettarlo. E anche nel caso di condanna definitiva di un parlamentare, per sottoporlo alla detenzione, occorreva l’approvazione dell’assemblea parlamentare. Ma mentre l’insincabilità è stata prevista come uno scudo permanente, per i casi coperti dall’immunità le garanzie decadono tutte alla cessazione del mandato parlamentare. In parole povere: una volta che il deputato non viene più eletto, diventa alla stregua di un normale cittadino e può essere indagato, arrestato, e così via.
LA FERITA DI TANGENTOPOLI E LA RIFORMA DEL 1993
I tempi, come si sa, cambiano rapidamente. E l’immunità parlamentare da istituzione di garanzia diventa negli anni odioso privilegio della casta. È così che nel 1993, mentre la prima Repubblica crollava sotto gli scandali di Tangentopoli, il Parlamento, sull’onda delle proteste popolari, introduce due modifiche sostanziali: nessuna necessità da parte della magistratura di chiedere l’autorizzazione preventiva per mettere sotto inchiesta un onorevole; nessuna autorizzazione per tradurre in carcere deputati o senatori condannati con sentenza definitiva. Restava (e resta) l’obbligo di chiedere il consenso di Camera o di Senato per intercettare, perquisire o procedere all’arresto preventivo per deputati o senatori. Anche il principio dell’insindacabilità ha conosciuto dei limiti. La Corte Costituzionale ha stabilito che fare un’intervista diffamatoria o insultare qualcuno per strada non rientra esattamente nelle prerogative parlamentari.