La regolazione delle relazioni tra persone di egual sesso deve tener conto di princìpi sanciti dalla Consulta, che nella sentenza 138/2010 ha definito sia il fondamento giuridico a tutela della famiglia (articolo 29 della Costituzione: «La Repubblica garantisce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio») sia quello delle unioni di altro tipo (articolo 2: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità»). Dopo Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte, è tornato a sottolinearlo su
Avvenire del 21 febbraio, Sabino Cassese, dal 2005 al 2014 giudice costituzionale ed estensore di quella pronuncia. Ma lo ha ricordato pure un magistrato attualmente in carica alla Consulta: Daria de Pretis, che venerdì scorso - nell’ambito di un seminario per studenti organizzato dal Rotary Club Rovereto - non si è sottratta a una domanda sulle unioni civili. Per mandato, ovviamente, non ha potuto dare il suo parere. Ma passando in rassegna 4 'grandi' sentenze della Corte ha inserito anche la 138/2010, spiegando come avesse investito il Parlamento del potere-dovere di legiferare sulla base dei criteri da essa richiamati. La Consulta, in quella pronuncia, pone una premessa: «Si deve escludere che l’aspirazione » al riconoscimento di unioni diverse da quelle familiari «possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio». Ed è qui che la Corte dimostra come la Costituente non avesse voluto occuparsi di coppie gay: «Come risulta nei lavori preparatori - si legge in sentenza - la questione delle unioni omosessuali rimase del tutto estranea al dibattito, benché la condizione omosessuale non fosse certo sconosciuta». Insomma, i padri costituenti le unioni gay vollero né vietarle, né disciplinarle. Ma solo dare un’indicazione implicita: quando mai fossero state regolate, avrebbero dovuto essere altro dal matrimonio. E il ddl Cirinnà? Su 23 articoli, almeno 10 o rinviano direttamente a quelli sul matrimonio, o impongono di parificare al coniuge il convivente registrato. Altri, invece, non rimandano agli articoli sulle nozze, ma ne ricalcano il testo. Per esempio, quello che impone in capo alle parti dell’unione «l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione» (articolo 3): ecco una delle tante disposizioni che estendono i fondamenti del matrimonio (addirittura implementandoli, visto che l’obbligo alla convivenza dalle norme nuziali è stato espunto) alle coppie dello stesso sesso. Una prospettiva che il successivo articolo 8, benché apparentemente tecnico, ribadisce apertamente: tra le deleghe che il testo dà al Governo, si rinviene quella di prevedere una norma affinché la «disciplina dell’unione civile regolata dalle leggi italiane alle coppie formate da persone dello stesso sesso» sia applicata anche a coloro che «abbiano contratto all’estero matrimonio, unione civile o altro istituto analogo». L’intento è chiarissimo: riconoscere le nozze gay estere come unione civile. Ma siccome le unioni civili in versione Cirinnà poco differiscono dalle nozze 'costituzionali', questa norma - nella sostanza - introdurrebbe proprio quella trascrizione del matrimonio omosessuale per cui la Consulta, con la sentenza 138 del 2010, ha ribadito irrinunciabile la differenza di sesso tra i nubendi.