A meno di una settimana dal rinnovo del Memorandum d’intesa tra Italia e Libia, le cosche del Paese nordafricano, ampiamente rappresentate a ogni livello delle istituzioni, mandano un messaggio al nuovo governo italiano, e a colpi di barconi e vite perdute ribadiscono chi è che comanda nel Mediterraneo. Centinaia di persone messe in mare con un record di partenze dalle parti di Tobruk, dove l’ex ministro dell’Interno di Tripoli, Fathi Bashaga, avendo fallito l’elezione a premier si è fatto un governo tutto suo venendo a patti con il generale Haftar, l’uomo forte della Cirenaica protetto da Vladimir Putin in persona.
In tempi di questue per ottenere gas e idrocarburi a buon prezzo, sono i capibanda a dare le carte, mentre gli ispettori delle Nazioni Unite e quelli della Corte penale internazionale reiterano le accuse per gli «orrori indicibili» proprio nei campi di prigionia controllati direttamente dalle autorità di uno Stato andato in pezzi. Scontri e regolamenti di conti sono tornati all’ordine del giorno. Nonostante questo i governi italiani (da Gentiloni a Draghi passando per i due Conte) non hanno mai davvero rinegoziato il Memorandum, nonostante l’impegno a strappare da Tripoli il rispetto dei diritti umani fondamentali.
L’ultima beffa è di pochi giorni fa. Nelle stesse ore in cui da Roma assicuravano la controparte libica dell’imminente invio di altri 14 pattugliatori per una delle tante milizie del mare chiamate “guardia costiera”, a Tripoli riceveva un nuovo pubblico encomio il maggiore Abdurhaman al-Milad, quel Bija a cui le Nazioni Unite hanno riconfermato le sanzioni per traffico di esseri umani, crimini contro i diritti umani, contrabbando di petrolio e armi.
“Bija”, ufficiale della Marina libica e boss di Zawyah, riceve un nuovo encomio dal governo di Tripoli - Facebook
Se entro il 2 novembre la Farnesina non chiederà la revisione dell’intesa, che andrebbe poi rinegoziata entro l’inizio di febbraio previo consenso di Tripoli, il testo resterà quello di sempre. E con i segreti di sempre. Fino ad ora, infatti, non sono mai stati resi pubblici i protocolli attuativi degli 8 articoli del memorandum. Già tre anni fa le parti si impegnavano al «superamento» dei «centri di accoglienza», quei disumani luoghi di detenzione che Papa Francesco ha più volte definito «lager libici». Mai si parla di «tortura», «abusi», «stupri», «riduzione in schiavitù», «vendita di migranti». Lessico invece adoperato in oltre 20 dossier delle Nazioni Unite e dal segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, che più volte ha accusato le autorità libiche di essere direttamente coinvolte nei traffici più esecrabili.Fino ad ora dalla Libia si sono presi gioco dell’Italia, che in verità ha sempre lasciato fare. Nel Memorandum si chiedeva già anni fa «il pieno e incondizionato accesso agli operatori umanitari, che potranno rafforzare l’attività di assistenza umanitaria a favore dei migranti e delle comunità ospitanti». Mai questi permessi sono stati accordati e mai dall’Italia e da Bruxelles si è deciso di interrompere i finanziamenti alle autorità libiche, che hanno continuato a violare i patti. Unico passo avanti, grazie all’insistenza della Farnesina, una più rapida concessione dei visti agli operatori internazionali delle Nazioni Unite, a cui Tripoli concedeva l’ingresso del Paese con il contagocce. Tuttavia i sopralluoghi indipendenti ai campi di prigionia restano impossibili e le uniche visite autorizzate vanno programmate con largo anticipo e i movimenti degli operatori umanitari ammessi devono seguire esclusivamente le indicazioni delle autorità libiche.
Anche per questa ragione in questi giorni vengono presentate interpellanze parlamentari, come quella di Riccardo Magi (Più Europa) che ha chiesto lo stop all’intesa e l’istituzione di una commissione d’inchiesta sui rapporti tra le due sponde del Mediterraneo.Ieri diverse associazioni, tra cui Amnesty, Medici Senza Frontiere, il Tavolo Asilo, hanno manifestato all’Esquilino, davanti alla basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, a pochi passi dal Viminale. Nella piazza presidiata a distanza dalla polizia, i manifestanti si sono presentati con occhi bendati e mani tinte di rosso, e cartelli con la scritta “Non sono d’accordo”. In piazza anche alcuni esponenti del centrosinistra, come Elly Schlein, Laura Boldrini, Matteo Orfini e Arturo Scotto.I manifestanti aderiscono alla petizione di 40 organizzazioni umanitarie che hanno firmato un appello congiunto. Tra i sottoscrittori anche i gesuiti del Centro Astalli, la Comunità Papa Giovanni XXIII e la Fondazione Migrantes della Cei. «Alla luce della situazione di insicurezza e instabilità della Libia, delle innumerevoli testimonianze di abusi e violenze», i promotori chiedono all’Europa «di riconoscere le proprie responsabilità e al Governo italiano di non rinnovare gli accordi con la Libia».