«La Chiesa tutta è qui con me, accanto alle vostre sofferenze, partecipe del vostro dolore per la perdita di familiari ed amici, desiderosa di aiutarvi nel ricostruire case, chiese, aziende crollate o gravemente danneggiate dal sisma…». La promessa fatta da Benedetto XVI ai terremotati è stata mantenuta. Il 28 aprile del 2009 il Papa visitò Onna e Coppito, quando il cratere sapeva ancora di polvere e plastica. Ventidue giorni prima, 308 persone erano morte sotto le travi e i calcinacci degli edifici crollati e 70.000 sfollati vivevano ora nelle 171 tendopoli della Protezione civile. Le avrebbero lasciate parecchi mesi dopo, per le Case antisismiche di Berlusconi, i Map in legno, gli alberghi della costa... La maggior parte vive in abitazioni di 50 metri quadrati, in trentamila non sono ancora rientrati a casa, malgrado i tre miliardi già spesi e gli otto stanziati. La Chiesa ha dato una risposta. Dopo la visita del Papa, che seguì di qualche giorno quella del cardinale Bagnasco, è partita la più grande operazione di solidarietà degli ultimi decenni: 5 milioni di euro stanziati in poche ore dalla Cei, altri trenta raccolti attraverso le diocesi - 20 solo dalla Colletta del 19 aprile 2009 - e i donatori privati. Un fiume di denaro gestito dalla Caritas italiana, che ha schierato sul luogo della tragedia 3.000 volontari, grazie alla solidarietà delle Caritas diocesane. Non è stato solo un grande sforzo finanziario, assistenziale e logistico: la Chiesa ha dato una risposta all’emergenza che è andata dai bisogni materiali a quelli spirituali dei terremotati, dall’animazione dei bambini al monitoraggio del disagio psichico. Una mobilitazione ecclesiale dentro e laica fuori: le iniziative erano congeniate in modo che ne potessero beneficiare cittadini di ogni fede religiosa. Le donazioni non sono servite per riparare le chiese - per quanto il patrimonio storico e religioso del cratere sia devastato -, ma per realizzare centri della comunità, strutture di edilizia sociale abitativa per categorie deboli, scuole, servizi sociali e caritativi. Fino ad oggi sono stati impegnati oltre 29 milioni per la ricostruzione e altri due per l’emergenza e la fase di riabilitazione sociale, con esperienze preziose come le "tende amiche", diventate l’unico vero centro di aggregazione delle
new town berlusconiane. Del progetto Case è stato detto tutto e il contrario di tutto: che sia stata una risposta di grande efficienza, in quanto ha permesso di dare un tetto a migliaia di aquilani; ma anche che abbia creato città-satelliti, isolate e prive di servizi, in cui muore l’identità aquilana e dalle quali tutti sognano di scappare. Probabilmente, sono vere entrambe le interpretazioni. Il programma governativo dei quartieri antisismici ha funzionato nell’emergenza e sta fallendo ora, nel medio e lungo termine: il rischio che la disgregazione del tessuto urbanistico del capoluogo completi l’opera distruttiva del terremoto è sotto gli occhi di tutti e la penosa situazione del patrimonio storico-artistico concorre alla deriva. La frammentazione della politica locale - otto i candidati alla poltrona di sindaco - non aiuta.«Immota manet» recita lo stemma della città, «funesto presagio» per Italia Nostra, la quale chiede la fine del commissariamento e l’immediato via libera ai restauri del centro storico aquilano. Quanto sia precaria la situazione lo sa bene il ministro Profumo, che nei giorni scorsi, durante una visita alla città, ha rischiato di essere colpito da una trave, per il cedimento di un puntello. L’Aquila, che ambisce al titolo di capitale europea della cultura 2019, deve tutto alla sua tradizione religiosa e al tesoro d’arte e di fede che da tre anni è prigioniero dei tubi innocenti. Il terremoto del 6 aprile 2009 ha colpito più di 1.000 chiese, 600 delle quali oggi sono gravemente inagibili. Al novero bisogna aggiungere più di 500 monumenti civili. Lo stallo della ricostruzione dei centri storici e il deperimento cui vanno incontro, anno dopo anno, questi grandi complessi architettonici sono la principale promessa non mantenuta del dopo terremoto. Sicuramente quella che più di ogni altra condiziona la rinascita dell’Aquila. Tutti ricordano la "lista di nozze" presentata nei giorni del G8 aquilano da Berlusconi ai grandi della Terra: ebbene, dopo i giorni delle facili promesse e degli ancor più spensierati entusiasmi, solo il governo kazako ha messo mano al portafoglio. Il risultato è che in tre anni solo le chiese meno danneggiate, che erano 120, sono state riaperte (anche con il contributo della Cei); si sta lavorando su altre 40. Per il resto, nessuno azzarda previsioni. L’ultima ordinanza ha rivoluzionato la governance, restituendo al ministero dei Beni culturali la competenza dei restauri. A poche ore dal passaggio di consegne Fabrizio Magani, direttore regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell’Abruzzo ha confermato «l’urgenza» di un coordinamento degli interventi.