sabato 4 agosto 2012
​Tra le sigle alla ricerca di nuovi affiliati il Gruppo Salafita per la predicazione, il Gruppo islamico combattente marocchino, Ansar al-Islam e naturalmente al Qaeda.
Cascini: «E c'è il pericolo di alleanze con anarchici e brigatisti»
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​È nelle carceri che il terrorismo islamico arruola i mujaheddin di domani. I nomi e le prove ci sono già. Su oltre 10mila reclusi musulmani, di cui 76 classificati come «terroristi internazionali», sono stati individuati «57 detenuti nei confronti dei quali è iniziata nell’aprile 2008 una raccolta dati, ancora in corso». Quattro anni di indagini all’interno dei penitenziari fanno dire al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che dietro le sbarre «il rischio di un proselitismo finalizzato alla lotta armata è concreto».In un fascicolo di 136 pagine firmato dall’Istituto superiore di studi penitenziari ci sono i dettagli. Al chiuso delle celle si svolge sotto traccia l’opera di indottrinamento. Per arrivare a compilare la lista dei possibili reclutatori la polizia penitenziaria ha monitorato «i normali aspetti di vita quotidiana» di centinaia di carcerati: «flussi di corrispondenza epistolare, colloqui visivi e telefonici, somme di denaro in entrata e in uscita, pacchi, rapporti disciplinari, ubicazione nelle stanze detentive, frequentazioni e relazioni comportamentali». Informazioni che confermano quanto avevano segnalato i servizi segreti con un rapporto nel quale indicavano «un’insidiosa opera di indottrinamento e reclutamento svolta da "veterani", condannati per appartenenza a reti terroristiche, nei confronti di connazionali detenuti per spaccio di droga o reati minori».L’analisi dei singoli profili «ha rimarcato l’incidenza di una rete di collegamento», sia interna che esterna. Alle volte a segnalare l’adesione a un gruppo estremista è il denaro. In numerosi casi la polizia penitenziaria, che collabora con gli agenti dell’intelligence, ha segnalato somme che gli "osservati speciali" ricevono dall’esterno, «ed è apparso significativo che, pur non essendo state le stesse di rilievo, fossero comunque al di sopra della norma, considerata la tipologia dei soggetti interessati, ovvero extracomunitari che prima non ricevevano denaro e versavano spesso in condizioni d’indigenza».Attraverso lo studio degli atti giudiziari che hanno portato in carcere i presunti terroristi è stata tracciata una mappa delle principali organizzazioni fondamentaliste presenti nei penitenziari. Sigle sempre alla ricerca di nuovi affiliati da impiegare non solo nelle cellule europee, ma sui fronti caldi della "guerra santa". Si tratta del Gruppo Salafita per la predicazione ed il combattimento (Algeria); Gruppo islamico combattente marocchino; Ansar al-Islam (Medio Oriente); Hamas (Palestina) e naturalmente al Qaeda.Il proselitismo non è figlio dell’improvvisazione. Sono stati individuati «soggetti con ruoli ben precisi e definiti», ciascuno con incarichi specifici. Ci sono i «detenuti leader», descritti dagli analisti del ministero della Giustizia come «conduttori di preghiera», figure carismatiche e fanatiche che arrivano a proclamarsi «veri e propri imam». Poi ci sono i «promotori», apparentemente moderati, incaricati di dialogare con le direzioni degli Istituti di pena allo scopo di ottenere spazi comuni «per incontri tra detenuti di fede islamica». Al livello più basso ci sono i potenziali mujaheddin, i cosiddetti «detenuti partecipanti», assidui frequentatori degli incontri per i quali non sempre è chiaro se presenti «perché obbligati o perché credenti praticanti».Il carcere è il luogo ideale per addestrare psicologicamente i futuri combattenti. «L’elemento psicologico ed emozionale di cui l’individuo è vittima entrando nel sistema carcerario – segnala il rapporto del Dap – è divenuto col tempo un fertile terreno per i reclutatori delle organizzazioni estremistiche islamiche, che nell’ambito del sistema carcerario hanno saputo col tempo costruire una poderosa rete di controllo e manipolazione».
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