sabato 4 agosto 2012
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​«Decine di reclusi islamici che si riuniscono in una sala, parlano una lingua che non comprendiamo, possono essere un problema. Un esempio? Qualche tempo fa nel carcere di Pisa nel corso di uno di questi incontri che sembravano a sfondo religioso in realtà veniva organizzata una rivolta». Francesco Cascini, magistrato dal 1995 e già pubblico ministero a Locri, è direttore dell’Ufficio per l’attività ispettiva e di controllo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. È lui ad aver coordinato lo studio "La radicalizzazione del terrorismo islamico".Qual è il punto debole nel sistema di prevenzione e controllo nelle carceri?Il problema che non ci permette di avere un controllo capillare rispetto al pericolo del proselitismo estremista sta nella mancanza di una comunità islamica di riferimento, riconosciuta e affidabile, con la quale avere rapporti istituzionali, per esempio per inviare imam nelle carceri e favorire un diritto come quello dell’esercizio del culto tra i detenuti. Di conseguenza, tra i reclusi spuntano predicatori sui quali sappiamo molto poco.Cosa andrebbe fatto?Lo dico non per un’ossessione del controllo, ma credo che favorire l’ingresso in carcere di imam attraverso canali moderati e conosciuti sarebbe la cosa migliore. Peraltro ci mancano i mediatori linguistici e culturali. Questo perché il carcere rappresenta il risultato peggiore di una politica dell’immigrazione (risalente nel tempo) che non tiene conto di molti aspetti. Per migliaia di detenuti noi non svolgiamo alcuna rieducazione, dato che la rieducazione presuppone il reinserimento, ma quali prospettive di reinserimento può avere un clandestino una volta tornato in libertà?In questo contesto, come agisce la macchina del proselitismo estremista?La radicalizzazione può avvenire attraverso due canali, per osmosi interna, ossia grazie all’influenza di altri detenuti, oppure per l’influenza esterna, ossia l’introduzione di testi devianti o l’accesso di visitatori autorizzati per vari motivi: quali l’assistenza religiosa, i colloqui familiari o altro.Si può tracciare un identikit dell’immigrato arruolato dagli estremisti?Nella maggioranza dei casi, gli studi hanno dimostrato che si tratta di uomini di età compresa tra i 20 ed i 30 anni dall’aspetto comune, in grado di non attirare l’attenzione. I giovani, infatti, si lasciano trascinare più facilmente da queste ideologie-fantasie.Ci sono prove circa contatti tra terroristi islamici ed esponenti dell’eversione interna?È emerso che taluni dei soggetti interessati dalla nostra "osservazione" si fossero ben integrati con gli altri reclusi, appartenenti sia alla criminalità organizzata che alle nuove Brigate Rosse e all’area anarco-insurrezionalista, tanto da mantenere contatti anche quando non si trovavano nella stessa sede. Se da una parte questo porta quasi ad escludere un’eventuale radicalizzazione della popolazione detenuta, non va trascurato il pericolo che in carcere possano nascere pericolosi sodalizi tra questi soggetti che, una volta usciti, potessero ricevere dagli estremisti politici supporti e appoggi per attività illecite. Sintomatico era ed è l’esistenza di una corrispondenza degli stessi con le associazioni di chiara ispirazione anarchica, con i quali i predetti continuano a condividere l’ideologia anticarceraria.
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