Il dottor Bashar Alsaqat nei giorni scorsi era a Roma con la famiglia, ospite del Movimento dei Focolari. È tornato in Iraq dove ha ripreso il servizio nella sua «trincea» ospedaliera.
Il carnefice era sdraiato su una barella di fortuna. Il braccio che prima brandiva l’Ak-47 del Califfato, penzolava oramai esanime. Chissà quante volte aveva sparato contro i cristiani della Piana di Ninive. Ma la sua vita, ora che era stato ferito, dipendeva dalla mano di uno dei perseguitati. Bashar Alsaqat impugnava l’affilatissima lama di un bisturi e in quel preciso istante pensò alla comunità cristiana dispersa a causa del conflitto: circa un milione di profughi sono fuggiti dalla regione di Ninive. Al dottore l’occasione per la vendetta s’era presentata quasi di sorpresa. Avrebbe potuto decidere di non curare quel miliziano, o di applicare all’indesiderato degente la sharia che lui e gli altri combattenti in tuta nera applicano da anni senza pietà. Se lo sarebbe anche meritato, dicevano i più. Se gli avesse amputato le mani, il mujaheddin non avrebbe potuto più fare del male e per tutta la vita avrebbe dovuto ricordare il perché di quella mutilazione. Ma il dottor Bashar è un cristiano. «Quando mi portano qualcuno da curare, per me si tratta di esseri umani e basta. E io li curo».
Lo dice da medico, e lo ripete da credente. «Amare i nemici», non è mai stato così difficile. «La cosa in assoluto più complicata - risponde - è riuscire a persuadere i colleghi dell’ospedale a intervenire sui militanti del Daesh rimasti fe- riti». Lui non si tira indietro. E il buon esempio, prima o poi, finisce per contagiare. «Gli altri dottori vedono quegli uomini come nemici, ma io cerco di convincerli a non dimenticare che siamo medici e che davanti a noi non c’è un terrorista o un assassino, ma una persona». In quasi tre anni nella sua trincea ospedaliera ne ha curati a decine. Quasi tutti, dopo, finiscono nelle prigioni governative. Il dolore, i lutti, le vite spezzate e quelle depredate, sono benzina per l’odio. Ma poi accade quello che George Orwell spiegò a proposito della guerra: «La vendetta è un’azione che si vorrebbe compiere quando e proprio perché si è impotenti: non appena questo sentimento di impotenza scompare - scriveva il grande reporter -, svanisce anche il desiderio di vendicarsi». Senza la fede, però, sarebbe tutto più complicato.
«Quando nel 2014 gli uomini del Califfato hanno assediato la Piana di Ninive, chi ha potuto è fuggito via. Anche noi avremmo potuto farlo, ma io sono un dottore e mia moglie un’insegnante. Avevamo il dovere di stare a fianco di chi è rimasto, di metterci al servizio della popolazione come abbiamo sempre fatto». È così che hanno resistito fino a quando, pochi mesi fa, i combattenti del Daesh sono stati costretti a indietreggiare. Sposato e con due figli, il dottor Alsaqat ha lavorato spesso in condizioni disperate. Sotto le bombe, con i farmaci che scarseggiano, senza illuminazione e con la sala operatoria che traballa come un palazzo sul punto di venire demolito. Molto spesso, una volta guariti, i miliziani finiscono prigionieri di guerra. Con loro avvengono pochi scambi di parole. E non di rado si tratta di foreign fighters arrivati dall’Europa o dal Caucaso. «Per salvare una vita possono volerci anche diverse ore in sala operatoria, ma il nostro dovere è quello di fare tutto il possibile per chiunque abbia necessità di cure». Nel mese di maggio 2016 Caritas Iraq aveva passato in rassegna le famiglie cristiane, dopo la fuga dalle loro case. Tutti sognano di tornare. Il 52% dei profughi viene dalla città di Qaraqosh, dove la presenza cristiana era massiccia, il 33% da altri villaggi della Piana di Ninive e il 25% da Mosul. Parlare al telefono con il dottor Bashar può significare anche ascoltare i rumori di fondo di una cucina da campo. Non perché viva in un campo profughi, ma perché nella loro casa vengono ospitati una cinquantina di profughi che hanno perso tutto. Non tutti sono cristiani, ma nello spirito del Movimento dei Focolari, a cui la famiglia appartiene, il dialogo è pane quotidiano. Nabeela Jahola, la moglie, ha dovuto adattarsi alle necessità.
«Prima facevo da mangiare per quattro, adesso la cucina è organizzata per sfamare una cinquantina di persone per pasto». All’inizio hanno dovuto rinunciare anche all’ultimo comfort: «Abbiamo dato il nostro letto agli ospiti e siamo riusciti a raccogliere materassi per tutti». La loro giornata non finisce mai. «Ci svegliamo presto - racconta la moglie - perché bisogna andare al mercato e comprare da mangiare per tutta questa gente. I primi sono arrivati di notte, erano spaventati e cercavano un riparo. Così abbiamo cercato di dare un tetto a chiunque lo chiedesse». I due figli maschi, entrambi preadolescenti, si sono dovuti adattare e così la famiglia Alsaqat è diventata un riferimento. E in un paese con le scuole che funzionano a singhiozzo, venire ospitati da un medico sposato con un’insegnante che fa da cuoca e da maestra è un vero miracolo. Nel corso della Quaresima la famiglia Alsaqat ha potuto raggiungere per qualche giorno Roma, proprio grazie al movimento fondato da Chiara Lubich. Un’inizeione di speranza che alimenta l’ottimismo che si respira dallo scorso febbraio, quando le prime famiglie cristiane hanno potuto fare ritorno in quel che resta dei loro villaggi della Piana. L’avanzata dell’esercito dell’Iraq nella parte ovest di Mosul, ancora nelle mani del sedicente Stato Islamico, procede però a rilento. Sono circa 300 mila gli iracheni sfollati dalla città del nord del Paese. Sarebbero invece almeno 72 mila quelli rientrati nelle proprie abitazioni nelle zone riconquistate dalle forze di sicurezza irachene. Bashar e Nabeela non mancheranno alla Messa con i loro figli. Poi dovranno tornare nella casa dove occorre far da mangiare e trasformare il salotto in dormitorio. Neanche oggi i samaritani di Ninive avranno tempo per odiare.