mercoledì 26 marzo 2025
Il già leader Cisl parla a 40 anni dalla morte del professore ucciso dalle Br: proponeva idee impopolari, ma ci esortava a spiegarle bene, era la concertazione. Oggi un convegno lo ricorda
D'Antoni: «Tarantelli intellettuale libero. Di lui ci sarebbe bisogno oggi»

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Domani ricorre il 40° anniversario della morte di Ezio Tarantelli. L’economista “padre” della concertazione, che aveva lavorato in Banca d’Italia e aveva insegnato alla Cattolica, aveva 44 anni quando, la mattina del 27 marzo 1985, due assassini delle Brigate rosse gli spararono alle spalle, nel parcheggio della facoltà di Economia e commercio a Roma, a pochi passi dall’aula della sua ultima lezione. La Cisl, il sindacato a cui fu più vicino, lo ricorda stamani con un convegno all’auditorium di via Rieti, presenti lo studioso (e figlio) Luca Tarantelli, Vera Zamagni, Pietro Modiano, Emmanuele Massagli (presidente della Fondazione Tarantelli) e Daniela Fumarola, segretaria generale della Cisl. È annunciata anche la ministra del Lavoro, Marina Calderone.

Quarant'anni senza Ezio Tarantelli. Senza questo martire del Novecento di un’Italia eternamente poco riformista, sconosciuto forse ai giovani d’oggi nonostante abbia profondamente marcato una stagione del Paese, che è la ragione poi per cui fu ucciso da quel coacervo ideologico intriso di pregiudizio denominato Brigate rosse. «Era un intellettuale libero, perciò una di quelle persone di cui ci sarebbe tanto bisogno ancora in quest’Italia di oggi. Proponeva ricette impopolari ma giuste, per dare a chi ha di meno togliendo a chi ha di più. Ricordo che ci diceva “dovete spiegarle bene però, perché il popolo poi capisce”. Ecco, questo era Tarantelli», ci dice Sergio D’Antoni, 78 anni, storico segretario generale della Cisl per 9 anni (dal 1991 al 2000), poi deputato per altri 9 e oggi ancora attivo nello sport, sua passione, come presidente del Coni Sicilia («Da volontario, a titolo gratuito», precisa). Ma, soprattutto, uno dei non molti testimoni rimasti di quella «stagione di grande significato della concertazione» - così la definisce - che fu frutto delle politiche dell’economista trucidato per le sue idee.
D’Antoni, come presenterebbe Tarantelli a un ragazzo di oggi?
Un grande scienziato dell’economia. Che non voleva limitarsi a studiare, ma puntava a tradurre la sua scienza in atti vantaggiosi per i lavoratori.
Che ricordi ha di lui?
Il rammarico è di averlo conosciuto per meno di due anni. La prima volta fu nel luglio 1983, quando entrai nella segreteria confederale della Cisl. Venivo da Palermo dove, da segretario regionale, avevo già avuto la fortuna di veder nascere un’intesa concertativa con Piersanti Mattarella. Già da un paio d’anni l’allora segretario Pierre Carniti aveva preso a cuore Tarantelli, chiamandolo a dirigere il centro studi. Mi colpì subito la sua convinzione ferrea.
La sua formazione era però di sinistra.
Vero. E questa è l’altra sua grande eredità. Cioè che bisogna saper andare oltre i propri schemi mentali senza pregiudizi, misurandosi sulle capacità della società di esprimersi al meglio. Per questo capì che noi cislini eravamo sulle sue idee più sponda rispetto alla Cgil. Tarantelli era un riformista di cultura laica, vicino al Pci ma con un’esperienza bostoniana, dov’era stato allievo del Nobel Franco Modigliani. Dobbiamo fare una premessa per inquadrare il periodo, però.
Vale a dire?
Quelli erano anni in cui vivevamo immersi nel circolo vizioso della rincorsa dei salari ai prezzi, che produceva inflazione e svalutazione della lira e, al fondo, l’aumento del debito pubblico. Nei suoi articoli su Repubblica e l’Unità Tarantelli aveva sostenuto la tesi che per battere il carovita bisognava eliminare gli automatismi salariali e ridare al sindacato spazi di agibilità. Credeva molto nel sindacato e non voleva che altri attori agissero per conto suo.
Poi venne l’accordo di san Valentino per bloccare la cosiddetta “scala mobile”.
Esatto. Prima Tarantelli, da studioso libero, a fine 1983 aveva presentato la sua tesi anche ai leader di Cgil e Uil, Lama e Benvenuto. Tutte e tre le sigle dissero di sì. A quel punto Berlinguer, segretario del Pci, per una serie di ragioni si oppose e Lama ritirò la firma, tanto da provocare la rottura della componente socialista. Quei fatti del 1984/85, culminati nel referendum abrogativo che sancì la sconfitta del Pci di Berlinguer e della Cgil, furono il vero atto di concepimento della concertazione, che è ben più del dialogo e che poi si sviluppò, dal 1992 in poi, con i governi Amato e Ciampi e che portò al controllo dell’inflazione come modello di crescita bilanciata e arma primaria per tutelare i salari. Il padre di tutto questo è Tarantelli, studioso formidabile che teorizzò anche il salario d’anticipo, basato sull’aggancio a obiettivi condivisi fra governo e parti sociali. Egli era convinto appunto che la concertazione non è uno scambio: significa individuare degli obiettivi e avere comportamenti adeguati per centrarli. La Cisl, che già aveva una sua cultura della partecipazione, trovò in lui un riferimento molto forte. La sua vita finì troppo presto, ma le sue idee portarono frutti.
E oggi?
Non voglio parlare troppo dell’attualità, ma nella impostazione generale è quello che ci vorrebbe anche ora, davanti ai tanti problemi che insidiano il mondo del lavoro: oggi più che mai ci vorrebbe un grande patto, un grande accordo.
Invece la concertazione è finita su un binario morto?
Purtroppo, a partire dal Berlusconi del 2001/06, ma anche fra tutti i governi successivi, ha preso piede una verticalizzazione della politica che non tiene conto del fatto che invece la società italiana è di tipo orizzontale. La concezione anglosassone non ci appartiene, le due culture da noi dominanti - quella cattolico-sociale e quella socialdemocratica - non hanno mai vissuto le istituzioni come valore assoluto perché per esse prima viene la società con i suoi bisogni. Ed è su di essa che si costruiscono e si legittimano le istituzioni.

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