Il padre di Tamimou Derman, nel villaggio di Madjaton in Togo. In fondo a sinistra, la sorella del giovane migrante morto congelato sulle Alpi al confine italo-francese (foto M. Fraschini Koffi)
Il villaggio di Madjaton si trova tra le verdi colline di Kpalimé, una tranquilla città nel sud-ovest del Togo. Un luogo dalla natura lussureggiante e il terreno fertile. È qui che è cresciuto Tamimou Derman, il migrante deceduto per il freddo il 7 febbraio mentre cercava di superare a piedi il confine tra l’Italia e la Francia. La sua famiglia è composta da padre, madre, tre fratelli, e una sorella. Sono tutti seduti all’ombra di un grande albero in attesa di visite e notizie.
«Salam aleikum, la pace sia con voi» dicono con un sorriso all'arrivo di ogni persona che passa a trovarli per le condoglianze. L’accoglienza è calorosa nonostante la triste atmosfera. «È stato un nostro parente che vive in Libia a darci per primo la notizia», dice Samoudini, il fratello maggiore di 35 anni. «All'inizio non potevamo crederci, ci aveva spedito un messaggio vocale due giorni prima della partenza per la Francia. Poi le voci si sono fatte sempre più insistenti – continua Samoudini – e le speranze sono piano piano svanite. Ora il nostro problema principale è trovare i soldi per far ritornare la salma».
Tamimou è la prima vittima dell’anno tra chi, come molti altri migranti africani, ha tentato di raggiungere la Francia dall’Italia attraverso le Alpi. Il giovane togolese era partito con un gruppo di altri venti ragazzi. Speravano di eludere gli agenti di polizia che pattugliano una zona sempre più militarizzata. «Diciamo a tutti i migranti di non incamminarsi per quei valichi in questa stagione – ha spiegato alla stampa Paolo Narcisi, medico e presidente della Onlus torinese, Rainbow for Africa – . È un passaggio troppo rischioso».
Prima di avventurarsi tra la neve e il gelo, Tamimou aveva appunto lasciato un messaggio alla famiglia. «Ho comprato il biglietto del treno e partirò domani per la Francia – si sente in un audio whatsapp di circa un minuto –. Pregate per me e se Dio vorrà ci parleremo dal territorio francese». Il padre e un amico, uno accanto all'altro, scoppiano a piangere. La mamma, seduta tra il gruppo delle donne, resta immobile con gli occhi rossi. La sorella pone invece il capo tra le ginocchia ed emette un leggero singhiozzo. Per alcuni secondi restiamo in un silenzio profondo, interrotto solamente dalle voci dei bambini del villaggio che rincorrono cani e galline. Ascoltare la voce di Tamimou riporta la famiglia al momento in cui è giunta la notizia del suo decesso, l’8 febbraio.
«Non volevamo che partisse per l’Europa», riprende Inoussa Derman, il papà, cercando di trattenere le lacrime. «Lui però era determinato. Si sentiva responsabile per le condizioni di salute di mia moglie che, tuttora – racconta il genitore – soffre di ipertensione e per diverso tempo è stata ricoverata in ospedale. Non avevamo i soldi per pagare le cure». La madre, Issaka, fissa il terreno senza parlare. Sembra avvertire il peso di una responsabilità legata alla partenza del figlio. Tamimou si era dato da fare subito dopo la scuola. Aveva lavorato a Kpalimé come muratore prima di trasferirsi in Ghana per due anni e continuare il mestiere. Non riuscendo a guadagnare abbastanza, aveva deciso di partire per l’Europa nel 2015. Con i suoi risparmi e un po’ di soldi chiesti a diversi conoscenti, ha raggiunto la città nigerina di Agadez, da decenni importante crocevia della rotta migratoria proveniente da tutta l’Africa occidentale e centrale. Dopo qualche mese il ragazzo ha contattato la famiglia dalla Libia. «Ci diceva quanto era pericoloso a causa dei continui spari e degli arresti indiscriminati – aggiunge Moussara, la sorella di 33 anni –. Gli abbiamo detto più volte di tornare, ma non ci ha voluto ascoltare».
Tamimou ha trascorso almeno 18 mesi in Libia in attesa di trovare i soldi per continuare il viaggio.
«Ci sentivamo spesso anche quando ha oltrepassato il 'grande fiume' per arrivare in Italia – racconta Satade, un amico d’infanzia, in riferimento al Mar Mediterraneo –. Con i nostri ex compagni di scuola avevamo infatti creato un gruppo su whatsapp per rimanere in contatto con lui».
Dopo più di 16 mesi in Italia, il migrante togolese raccontava alla famiglia di essere ancora disoccupato. «Non ho trovato niente – spiegava in un altro messaggio vocale –. In Italia ci vogliono i documenti per lavorare e io non riesco a ottenerli». La decisione di partire per la Francia era stata presa con grande sofferenza. Diversi amici avevano assicurato al migrante togolese che al di là del confine sarebbe stato molto più facile trovare un impiego. Ma di Tamimou, in Francia, è arrivato solo il cadavere. Da giorni è ospitato all'obitorio dell’ospedale di Briançon. La famiglia è in contatto con un cugino che vive da diversi anni in Italia e sta seguendo le pratiche. Parenti e amici vogliono riportare il corpo di Tamimou nel caldo di Madjaton, a casa, per seppellirlo secondo le usanze tradizionali. «Gli avevamo detto di non partire – insiste il padre –. Ma non si può fermare la determinazione di un giovane sognatore».