Racconta. Vuole raccontare. «Forse Dio, a differenza di tanti miei amici e amiche che hanno percorso la stessa strada, ma non ci sono più, ha deciso di lasciarmi qui perché testimoniassi»: E poi «la mia famiglia vive ancora a Caivano». Siede. Emozionata, le mani tormentano la borsetta. Decisa, la voce non le s’incrinerà mai. Trentacinquenne, laureata in architettura, una bella donna. «Un mese prima di sposarmi, scoprii di avere un tumore», comincia Vincenza Cristiano. I sintomi c’erano già da un anno e il medico di famiglia si rifiutava di prescriverle esami oncologici: «Avrei fatto inutilmente aumentare la spesa sanitaria. Secondo lui, ero solamente stressata e soffrivo di allergia».Una mattina d’agosto del 2007 la madre le chiede di andare al pronto soccorso. Esami strumentali e un ceffone come verdetto: tumore raro al mediastino da mezzo chilo e dieci centimetri per dieci e mezzo, cioè un mattone fra cuore e polmoni. Ricovero d’urgenza all’Istituto nazionale tumori Giovanni Pascale di Napoli, operazione per l’esame bioptico, subito dopo avviso chiaro e tondo dai medici: «Non potrai sposarti fra un mese, non ti terrai in piedi, quale che verrà fuori la classificazione del tuo linfoma. E, semmai ti andasse bene, riuscirai a sposarti magari fra un anno». A proposito, le scoprono una malformazione cardiaca dalla nascita, un buchino fra gli atri destro e sinistro (e malformazioni ne hanno anche due dei suoi tre fratelli...).I medici allora tagliano corto, esplicito, e dopo il ceffone arriva la fucilata: «Vincenza, ti rimane un mese di vita». C’è dell’altro, svelatole in privato e a quattr’occhi da un oncoematologo che la segue da vicino: «Avevi altissime probabilità ti venisse un tumore, perché vivi nel triangolo dei veleni». Sarebbe a dire l’hinterland a nord, nordest di Napoli, le cui terre grondano rifiuti tossici di mezza Italia (dall’amianto al cadmio, dalla diossina a materiali radioattivi...) bruciati e/o sversati illegalmente e di nascosto dalla camorra. Non a caso da queste parti le incidenze di malformazioni e tumori, da vent’anni, sono molto, molto al di sopra delle medie nazionali. E tenendo a mente che ogni anno in Italia non c’è tracciabilità dello smaltimento di almeno un milione di tonnellate di rifiuti particolarmente pericolosi per la salute, il quadro si fa più nitido.Vincenza non si regge in piedi. Pesa quaranta chili. Fa nulla, col fidanzato decidono di sposarsi il giorno dopo, 21 agosto, e l’autorizzazione del vescovo arriva nella mattinata. Sono anche tutti fuori. «Pensa – ricorda Vincenza –, la sarta era in vacanza al mare, ma la notte fra 20 e 21 fu costretta a tornare di corsa perché c’era una grossa perdita d’acqua nel suo negozio, così riuscì a farmi dare un vestito. Neanche le fedi nuziali si trovavano, un solo gioielliere ne aveva due, ma erano da esposizione». Mostra, adesso, parlando, l’anulare sinistro: «Non lo crederai, ma le misure di quelle due fedi erano esattamente la mia e di mio marito». Il ristorante? «Lo prenotò in fretta e furia mio fratello. Quando ci andammo, dopo il matrimonio, scoprimmo che era quello dove ci eravamo fidanzati e mio marito mi aveva dato il primo bacio». Sorride. E sorride anche col volto: «Il Signore non ci ha solamente sempre accompagnato, ma di volta in volta ci ha dato molti segni...».Tre giorni di viaggio di nozze a Ischia e Vincenza rientra al Pascale. Ricorda bene, di quel periodo, «Susanna, Sara, Francesca, che avevano venticinque, ventisei anni, ma anche una bimba di dieci», tutte compagne di ospedale che «non ci sono più, tutte giovani ragazze della mia zona». Ma anche giovani ragazzi come «Salvatore, Antonio, tanti altri e tutti sotto i trent’anni. Quanti, ne abbiamo persi».Le propongono una terapia particolare, sperimentale. È d’attacco violento al tumore, perché non c’è alcuna altra possibilità. Prima una polichemioterapia pesantissima associata a cento milligrammi di cortisone al giorno, poi una radioterapia altrettanto potente. E tutto è reso ancora più tremendo e complicato dalla malformazione cardiaca.Se ne va quasi un anno durante i quali Vincenza finisce per un periodo in carrozzella, perde capelli e unghie, dimagrisce ancora, da sola neppure riesce a scendere dal letto. Combatte. Tiene duro. «Mi sentivo in pace. Mi sono fidata di Dio, comunque Lui avesse disposto, per me sarebbe andata bene. Fossi morta avrei raggiunto il Signore e certo avrebbe avuto pietà di me». Gli oncologi del Pascale, qualche anno più tardi, le confidarono la loro certezza: «Pensavamo non ce l’avresti mai fatta».Non è affatto rabbiosa, Vincenza. Non ha voglia di vendette. È tenacemente determinata, vuole finisca questo assurdo avvelenamento della sua terra ed è impegnata per questo. E se col marito si è trasferita a vivere a Minturno, però «a Caivano – ripete – c’è la mia famiglia, i miei cari». Ogni sei mesi deve fare accurati controlli. Continua alcune terapie farmacologiche. Qualche volta è dovuta correre al pronto soccorso. È diventata sterile. Combatte, tiene duro, del resto lo aveva fatto quando la qualità della sua vita era colata a picco, figurarsi adesso che ha lunghi, lisci capelli castani, unghie curate e smaltate, esercita il suo mestiere di architetto e a conoscerla immagini tutto tranne che porti sulle spalle una storia come questa.Si può evitare di pubblicare il nome vero, anche solo quello di battesimo: «No e perché? Metti pure nome e cognome: Vincenza Cristiano. Non mi vergogno, di cosa dovrei? Né ho paura: la gente deve sapere».