Due diversi governi, quello di Draghi e quello di Meloni, e due diversi ministri dell’Economia, il tecnico Franco e il politico Giorgetti, hanno investito non poco tempo della loro attività istituzionale a spiegare in lungo e in largo, a parole e numeri, la voragine aperta nei conti pubblici dal Superbonus 110%.
Ma le decisioni, sinora, non sono mai state una vera conseguenza delle stringenti analisi.
La cassa non si è mai chiusa per davvero e ciò che è derivato dai complessi “spiegoni” è una fila interminabile di correzioni, aggiustamenti delle correzioni, strette, riallargamenti, pseudo-archiviazioni e proroghe di fatto che non hanno fermato l’impatto sul debito e in aggiunta hanno mandato nel caos (e talvolta in crisi) imprese, tecnici, condomini e famiglie.
In qualche modo l’intera storia del Superbonus 110% è la rappresentazione della confusione in cui versa la politica e il partitismo italiano. Da un lato la consapevolezza “istituzionale” che bisogna rimettere ordine nelle spese, a partire da quelle meno giustificabili, dall’altro la consapevolezza, politico-elettorale, che le generose misure pandemiche sono ancora centrali per tenere il segno “più” davanti all’anemico Pil nazionale. E quindi non sorprende l’unità da destra a sinistra nel rinnovare, a discapito ancora una volta delle posizioni di Giorgetti, una misura che aggiunge debito sulle spalle dei figli.
Ma un’osservazione è doverosa: la stessa bonaria comprensione delle «difficoltà» dei cantieri non si è vista quando si è deciso di tagliare il Reddito di cittadinanza, a fronte di un volume di truffe molto ma molto più basso rispetto a quelle cumulate con il 110%.