Blessed con Alice, Francesco e Davide, i "fratellini" italiani, nella loro casa in Veneto
Sul divano i tre bambini biondi giocano con un bambolotto, riccio di capelli e scuro di pelle. Ha la bocca bianca di latte e gli occhi chiusi nel sonno ignaro dei giusti. Sua mamma, Juli, 22 anni, nigeriana, lo guarda con protezione, sa bene quanto è stata vicina a perderlo. «Benedetto», sussurra per non svegliarlo, ed è insieme un nome e un’invocazione, «l’ho chiamato Blessed, Benedetto». Perché quel figlio è vivo solo grazie al fatto che lei non aveva gli spiccioli per un treno verso il capoluogo... Per spiegarcelo, estrae dalla borsa una carta: poche righe manoscritte, un timbro dell’Asl, la firma scarabocchiata da un medico (donna) che aveva fretta. Con rapidità si può decidere della vita e della morte altrui: 'Gravida alla 13° settimana? Data l’incerta datazione e l’assoluta impossibilità da lei riferita di portare avanti la gravidanza, invio presso la ginecologia per la procedura di IVG', interruzione volontaria di gravidanza.
La legge 194 in realtà prevede incontri con psicologi e assistenti sociali, rimozione delle cause che hanno indotto la donna a rinunciare al figlio, accertamento di gravissimi rischi per la salute della madre o del bambino, senza i quali l’aborto non è consentito... Niente di tutto questo, anzi: la stessa penna frettolosa di medico ha tracciato una riga sulla dicitura prevista per legge – 'La signora viene invitata a soprassedere per 7 giorni' – e l’ha corretta con la condanna definitiva: 'invio presso la ginecologia per la procedura...'. Un timbro e Blessed usciva dal mondo, vista 'l’assoluta impossibilità' di vivere. E poco importa che i termini di legge (12 settimane) fossero scaduti. Solo che Juli al Consultorio si era sì rivolta per 'l’assoluta impossibilità', ma di farcela da sola: «Ero spaventata, sola, irregolare, senza documenti. I nigeriani che mi avevano accolta, quando hanno saputo che aspettavo un bambino mi hanno buttata fuori. Ho chiesto aiuto al Consultorio».
Ed è su questa parola, aiuto, che occorre intendersi. Invece Juli e la frettolosa dottoressa parlano due lingue diverse, e non solo nell’idioma. «Io non so l’italiano e lei non capiva il mio inglese – continua Juli –. Ho detto di aiutarmi con la gravidanza, la dottoressa mi faceva domande in italiano. Mi ha fatto firmare e mi ha indicato dove andare, un ospedale in un’altra città. Non avevo i soldi e non sono andata». Solo oggi le è chiaro cos’ha rischiato: «Io chiedere di abortire? Assolutamente mai», dice con veemenza, «I was looking for a help» ... E così resta sola, Juli, con la pancia che cresce insieme all’angoscia.
Finché l’associazione Papa Giovanni XXIII la intercetta e lancia l’allarme: chi può accogliere una madre in attesa? «Da settimane segnalavano la presenza di una giovane mamma in strada, alla fine l’abbiamo ospitata noi, anche se avevamo tre bambini», spiegano Mariaelena e Marco, giornalista lui, ingegnere lei. Siamo nel laborioso Nord-Est, trop- po spesso tacciato di razzismo. È con loro che Juli ha vissuto serena gli ultimi mesi di gravidanza (rimosse d’un colpo tutte le cause che secondo la 194 dovrebbe rimuovere lo Stato), ed è qui che Blessed un mese fa ha trovato il suo posto nel mondo, tra Alice, 5 anni, Francesco, 3, Davide, 8 mesi. «Non tutto è semplice – ammette Marco – le mentalità sono diverse, Juli per lavare il bambino bolle l’acqua come fosse in Africa, e non sa usare gli elettrodomestici, tant’è che ci ha bruciato il forno, ma che importa?». Blessed e Davide succhiano il latte in contemporanea e insieme sono stati battezzati una settimana fa.
«Accoglierli ci aiuta a crescere come Chiesa nel condividere la richiesta di aiuto del povero, modifica la nostra vita uniformandola al Vangelo, ed è bello ritrovarsi negli atti degli Apostoli fra le modalità di vita delle prime comunità cristiane, come se fossero scritti per noi oggi». La loro presenza in famiglia è un regalo grande per i loro figli, «che crescono in un mondo migliore, diverso e possibile già oggi».
Un giorno diventando grandi scopriranno che Juli ha rischiato la vita nel deserto e sul mare, per avere quello che per loro è normale... «Provo rabbia per la superficialità con cui le è stato fatto firmare, in italiano, un certificato d’aborto e mi domando se sia questa la prassi con le straniere incinte che si rivolgono agli ospedali italiani in cerca di aiuto... Ora vorrei portare a quel medico il bimbo e una preghiera: se ti capita ancora, informa la mamma che far nascere un bambino in anonimato è possibile. O che ci sono famiglie pronte ad accoglierla come fosse una figlia».