Graziella Fumagall - .
Vedi Bosaso e poi muori. Lo stesso atroce destino toccò nel 1994 a Ilaria Alpi e poi, l’anno dopo, alla dottoressa brianzola Graziella Fumagalli. Assassinate entrambe in Somalia, ancora non si sa da chi né perché: la giornalista a Mogadiscio, la dottoressa il 22 ottobre 1995 a Merca, nel centro di cura per la tubercolosi che dirigeva per conto della Caritas. Due delitti e tante ipotesi, senza mai arrivare alla verità né tantomeno all’individuazione di esecutori e mandanti.
Venticinque anni dopo, un testimone diretto decide di rivelare ad Avvenire alcuni retroscena mai emersi prima. Ricordi e dettagli importanti, che potrebbero far luce su un mistero tuttora impenetrabile. E dipanare un filo rosso che pare unire le sorti di Graziella a quelle di Ilaria: entrambe fecero un ultimo viaggio nella città portuale del Nord della Somalia, crocevia di traffici di armi e rifiuti tossici, prima di essere giustiziate da mano ignota. Proprio come Ilaria, uccisa a Mogadiscio il 20 marzo 1994 da un colpo sparato a bruciapelo, anche Graziella Fumagalli fu assassinata a sangue freddo.
Un’esecuzione consumata nell’ambulatorio dove visitava i suoi pazienti. Quella mattina del 22 ottobre 1995 Cristoforo Andreoli, biologo responsabile del laboratorio di analisi, fu ferito gravemente al volto da un colpo d’arma da fuoco sparato dagli assalitori. «Stavo aspettando i miei collaboratori sull’uscio. Ricordo solo che fui colpito, probabilmente dall’esterno del compound, mentre il commando si allontanava. Graziella, purtroppo, era già stata uccisa ». Il movente, 25 anni dopo, è ancora avvolto nel mistero. Si è parlato di traffici di armi nel vicino porto, di cui la dottoressa potrebbe esser stata testimone, ma Andreoli ci crede poco. «All’epoca il porto di Merca era poco più di un piccolo molo.
Il villaggio di Merca visto dal compound che ospitava il centro medico della Caritas - .
Non mi ricordo grandi movimenti. Piuttosto, è vero che Graziella nei giorni precedenti era molto preoccupata. E la sua ansia era cominciata dopo un viaggio a Bosaso. C’era l’idea di aprire un centro medico anche lì e lei vi si era recata, probabilmente per verificare che ci fossero le condizioni». Bosaso è un nome che fa rizzare i capelli. Perché proprio lì, un anno prima, si recò Ilaria Alpi per intervistare il locale sultano sui traffici di armi che vi si svolgevano. La giornalista tornò dopo pochi giorni a Mogadiscio, dove fu assassinata con l’operatore Miran Hrovatin. Bosaso era il feudo dell’Ssdf, una delle tante fazioni in lotta nel turbolento e complicato scenario somalo. Cosa c’era andata a fare la dottoressa Fumagalli in un posto simile, dove le ombre si allungavano persino sugli interventi umanitari? Proprio da Bosaso transitò una nave piena di aiuti proveniente dall’Italia. Quando il carico fu deposto sul molo si scatenò una sparatoria da far west. Su quella nave stava indagando la Alpi, come risultò dai suoi appunti. Ci sono legami tra la sua fine e quella della dottoressa? Di sicuro, la Fumagalli era tornata turbata.
«Non sembrava più la stessa. E la sua ansia aumentò con il passare dei giorni. Ricordo alcune sue telefonate concitate dopo le quali appariva molto nervosa. Ma io e il resto del personale sul posto non sapevamo né capivamo cosa stesse accadendo. Avevo quasi l’impressione che ci nascondesse qualcosa, forse per proteggerci». Ma che cosa agitava Graziella, al punto da farla apparire «quasi fuori di sé?». Francesco Carloni, che all’epoca coordinava le missioni internazionali Caritas da Roma, non sa spiegarselo. «Sapevo che era sottoposta a forti pressioni locali, come tutti coloro che operavano in Somalia in quel periodo. Con i clan dovevi fare i conti, ma lei non era tipa da compromessi.
Con me però non parlò mai di minacce specifiche. Potrebbe essere rimasta vittima di piccoli interessi criminali, ma anche di intrecci compromettenti di cui magari era venuta a conoscenza. Non sapevo niente nemmeno del viaggio a Bosaso. Mi giunge del tutto nuova». Possibile che la dottoressa non ne avesse parlato con il capo missione? Un giallo nel giallo. Non c’è invece nessun mistero sulla dinamica dell’agguato. «Gli uomini della sicurezza, tutti somali, aprirono il cancello del compound agli assassini - spiega Andreoli -. Ricordo che una guardia, qualche giorno prima, mi disse: perché non ti prendi qualche giorno di vacanza… Capii solo in seguito che si era trattato di un avvertimento». Il centro medico, dopo l’omicidio, passò di mano. Dalla Caritas a Starlin Arush, l’attivista somala che conosceva Ilaria Alpi, molto ben introdotta nelle dinamiche (e negli intrighi) dei clan.
E che fu uccisa a sua volta a Nairobi in circostanze mai chiarite il 24 ottobre 2002. Stessa sorte anche per Annalena Tonelli, che della missione di Merca fu la fondatrice, ammazzata il 5 ottobre 2003 a Borama (Somalia). Tre donne ancora in attesa di giustizia. «Bisognerebbe fare di più per scoprire la verità - sottolinea Carloni - anche la Chiesa dovrebbe pretenderlo con maggior forza. Troppo spesso ci si ferma all’aspetto del martirio. Ma bisognerebbe capire anche cosa c’è dietro questi delitti. Lo dobbiamo a queste persone, che hanno dato la vita per il prossimo e per l’Africa».