mercoledì 17 dicembre 2008
Il neurologo plaude all'iniziativa del ministro Sacconi: sarebbe inaudito lasciar morire una persona gravemente disabile perché non si alimenta autonomamente.
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«Credo che si tratti di un atto che ristabilisce il corretto scopo dell’attività del medico e degli istituti di cura, che rischierebbe di essere stravolto se venisse attuato il decreto della Corte d’Appello di Milano che predispone l’accompagnamento alla morte di Eluana Englaro». Gian Luigi Gigli, professore di neurologia all’Università di Udine, plaude alla decisione del ministro del Welfare Maurizio Sacconi e ripete: «Non si può mettere a morte una persona gravemente disabile solo perché non si alimenta da sola». Professore, cosa comporta il veto posto dal ministro Sacconi alle strutture sanitarie pubbliche e private? Si riafferma in modo chiaro come alcuni atti siano contrari alla deontologia medica. Interrompere alimentazione e idratazione a una persona gravemente disabile rappresenterebbe uno stravolgimento della tradizione ippocratica. È inaudito ammettere che un medico possa prestarsi ad accelerare la fine di un paziente che fatichi a morire da solo. Credo che si tratti di un freno opportuno a una deriva che rischiava di capovolgere la natura della professione medica. Dal punto di vista pratico, credo che nel suo rivolgersi sia alle strutture pubbliche, sia a quelle private – convenzionate o autorizzate – coinvolga proprio tutti i luoghi di cura. Mi pare anche doveroso riconoscere che l’atto del ministro Sacconi è stato non solo giusto, ma anche coraggioso. Lei richiama la deontologia medica, ma il ministro si riferisce alle strutture sanitarie. C’è differenza? Il ministro riafferma la civiltà della cura in sintonia con la migliore tradizione del Servizio sanitario. Anche rispetto alle strutture sanitarie infatti sarebbe una contraddizione prestarsi ad accompagnare alla morte una persona che non è malata terminale. Il ministro in questo caso tutela i fini ispiratori del Servizio sanitario: come per il medico si tratterebbe di stravolgere un vincolo assunto con il giuramento di Ippocrate, così per un ospedale significherebbe trasformarsi da luogo di cura a luogo dove si mette a morte una persona. Mi pare legittimo che il ministro senta il bisogno di intervenire: un giudice non può obbligare il servizio sanitario e il medico a negare totalmente la propria ragion d’essere. Questo significa che invece in una casa privata il decreto della Corte d’Appello potrebbe avere seguito? Il dispositivo della sentenza del tribunale di Milano parla di hospice o di luoghi similari e qualcuno potrebbe interpretarlo anche come il domicilio. Contro questa ipotesi, tuttavia, ostacolano sia remore psicologiche che la volontà esplicita di utilizzare questo caso come nuova breccia di Porta Pia contro la sacralità della vita e coloro che la difendono. Riguardo alla casa di cura convenzionata di Udine, abbiamo chiesto all’assessore regionale se essa possa sottrarsi alle direttive dell’assessore stesso e se un medico dipendente dall’ospedale possa recarsi in quella struttura a prestare la propria opera mortifera.A questo proposito non dovrebbe bastare l’articolo 17 del Codice di deontologia medica che vieta di mettere in atto trattamenti che portino a morte, anche su richiesta del paziente?Il punto è che si vuol far credere che non si tratti di una condotta intesa ad affrettare la morte, ma di permettere la morte naturale. Naturalmente è un sofisma, perché se dovessimo accettare il decorso naturale per tutti i disabili gravi che non sono in grado autonomamente di provvedere alle esigenze vitali di base, ci sarebbero conseguenze assurde e si andrebbe contro il progresso. Dirò di più: in alcuni pazienti in stato vegetativo, la deglutizione è mantenuta: ma ci sono ragioni di economia di tempi (nutrirli un cucchiaino richiederebbe ore) e di rischi sanitari (polmoniti da ingestione) che spiegano il ricorso a una alimentazione che è giusto definire assistita, ma non forzata. Ma un medico potrebbe invocare la libertà di coscienza rispetto alle indicazioni del ministro?Vorrebbe dire sovvertire la natura dell’obiezione di coscienza, che è nata per allargare i diritti del singolo di rifiutare scelte moralmente discutibili, come l’uso delle armi e l’interruzione di gravidanza, cioè di rifiutare di prestare la propria opera per uccidere. Sarebbe paradossale invocarla per ottenere proprio il diritto a dare la morte.
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