giovedì 27 febbraio 2020
Lettera di due docenti di Veterinaria agli studenti: «Il principio di precauzione, se applicato bene, non sarà mai apprezzato abbastanza». L'invito a diffondere informazioni scientifiche sui rischi
«Non è la peste, ma neanche l'influenza. Ecco perché»

Ansa

COMMENTA E CONDIVIDI

Molte informazioni sul coronavirus che circolano in rete e in tante trasmissioni tv sono spesso incomplete e contraddittorie. Con le università chiuse, due virologi, professori presso il Dipartimento di Scienze Veterinarie a Torino, hanno inviato via WhatsApp un appello ai propri studenti, invitandoli a essere parte attiva nella comunicazione. Un prezioso contributo di chiarezza che merita di essere rilanciato.


Care studentesse e cari studenti,

come virologi del Dipartimento di Scienze Veterinarie sentiamo il dovere di esprimere e farvi conoscere la nostra opinione su quanto sta accadendo sul nostro territorio. Chi di voi ha già frequentato le nostre lezioni di virologia e malattie virali conosce l'approccio che utilizziamo quando vi parliamo delle infezioni epidemiche e di quali strategie i virus adottano per sfruttare la popolazione animale e mantenersi in natura.

Abbiamo a che fare con un virus ad RNA con una forte propensione a mutare ed adattarsi. L'origine è sicuramente animale ed il pipistrello è la specie serbatoio più probabile (alberga numerosi betacoronavirus fra cui quello da cui ha originato il virus della SARS). È probabile che sia passato all'uomo già da un po’ di tempo e si sia adattato (abbia imparato) proprio attraverso le mutazioni, ad essere trasmesso nel circuito interumano. Il salto di specie garantisce ad un nuovo virus un notevole vantaggio verso la popolazione suscettibile. L'uomo quindi rappresenta una opportunità formidabile perché rappresenta una specie abbondante, che vive in promiscuità ed è sprovvisto di memoria immunologica. I coronavirus del raffreddore sono degli alfacoronavirus e condividono ben poco del Covid 2019 in termini di cross-protezione. Quindi non è attesa in tempi brevi una riduzione della virulenza. Solo quando l'immunità di popolazione avrà raggiunto un certo livello, allora il virus comincerà ad essere trasmesso con maggiore difficoltà e tenderanno ad aumentare le forme lievi, croniche o asintomatiche. Notate che queste sono già presenti nella maggior parte degli infetti ma abbiamo ancora un 15-20% di infetti che sviluppano forme gravi che richiedono l'ospedalizzazione.

Una caratteristica di questo virus è quella di essere molto contagioso. Il legame con il recettore cellulare è venti volte più forte rispetto al virus della SARS. Inoltre presenta siti per le proteasi cellulari simili a quelli dei virus influenzali associati a peste aviare ad alta patogenicità (furin-like) quindi potenzialmente in grado di dare forme a maggior tropismo tissutale, essendo queste proteasi espresse in molti tessuti.

Quindi per concludere il virus non è la peste nera ma non è neanche una banale influenza e vi spieghiamo perché:

1) L'influenza stagionale ha una mortalità di circa lo 0,1%, non banale, ma la popolazione è in gran parte immune (per pregresse infezioni, parzialmente cross-protettive verso le nuove varianti e per la vaccinazione). In un tale contesto il virus influenzale serpeggia fra la popolazione e colpisce una frazione minoritaria delle persone senza incidere in modo significativo sulla forza lavoro di un paese.

2) SARS-Cov2 è un virus nuovo. Non abbiamo memoria immunologica o immunità di gregge. In tali casi il virus, senza misure di controllo, avrebbe un andamento epidemico, arrivando ad interessare una larga fascia della popolazione recettiva (dove il denominatore è tutta la popolazione italiana) prima di cominciare a rallentare la progressione. Questo significa che, anche in assenza di forme gravi, una gran parte della popolazione in età lavorativa, sarebbe bloccata per settimane con immaginabili ripercussioni sull'economia nazionale. Quindi ben vengano le misure di restrizione attualmente in uso per arginare almeno i principali focolai epidemici.

3) Covid-2019 causa forme gravi che richiedono il ricovero nel 15% dei casi. Si tratta di polmoniti che vengono curate in terapia intensiva per diversi giorni con l'ausilio della respirazione assistita. Quindi poco importa se la categoria a rischio di decesso siano gli over settantenni, con tutto il rispetto per i nostri vecchi. Anche i quarantenni o i cinquantenni (una parte cospicua della forza lavoro) avrebbe necessità della stessa terapia. Provate a chiedervi quanti letti per terapia intensiva ci sono nelle province italiane e quanti di questi sono già giustamente occupati da pazienti che hanno subito operazioni chirurgiche, traumi, ustioni ecc. Da qui la necessità di applicare tutte le misure utili ad arginare l'espandersi dei focolai epidemici, anche se vengono percepite come eccessive.

L'appello che facciamo agli studenti che hanno già maturato una sensibilità e coscienza sulle misure di lotta alle malattie degli animali è quella di fare tesoro delle vostre conoscenze ed essere parte attiva nella comunicazione del rischio, senza allarmare eccessivamente ma senza sottovalutare il problema.

Vi sarete accorti che non tutti i virologi che quotidianamente affollano le trasmissioni televisive la pensano allo stesso modo. Questo è assolutamente normale (la scienza è democratica fra gli scienziati e sensibilità e approcci diversi sono il sale del dibattito scientifico). La verità è che nessuno conosce come andrà a finire. Il principio di precauzione, se applicato bene, non sarà mai apprezzato abbastanza, se il problema sanitario poi non si verifica. Mentre una sottovalutazione del pericolo, in presenza di un'epidemia fuori controllo, farebbe scoppiare la rivoluzione. La difficoltà di prendere la giusta decisione è un sottile filo che lega questi due estremi.

Sergio Rosati, professore ordinario, Malattie infettive degli animali

Luigi Bertolotti, professore associato

Dipartimento di Scienze Veterinarie, Università di Torino

TUTTI GLI ARTICOLI SULL'EPIDEMIA DI COVID-19

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: