«C’è da fare una parte investigativa per capire quali siano le filiere di ingresso della manovalanza straniera e c’è un aspetto etico da condividere con l’imprenditoria». Appena arrivato a La Spezia, il nuovo questore Sebastiano Salvo ha subito acceso un faro sul problema del caporalato nei cantieri nautici. Un richiamo preciso e deciso ad alzare le antenne di fronte a un fenomeno che era emerso due anni fa in seguito a un’inchiesta della Guardia di Finanza, provocando la reazione virtuosa sia degli industriali che dei sindacati, e che però continua a strisciare sotto la superficie, in apparenza tranquilla. Una piaga che per la verità non riguarda solo La Spezia: indagini sono scattate negli ultimi anni anche sul versante Adriatico, da Ancona a Venezia.
Nel mirino le esternalizzazioni, strumento a due facce: da una parte consentono di affidare alcuni interventi a personale specializzato, dall’altra possono rappresentare un escamotage per aggirare norme contrattuali e tutele connesse. Come accadde appunto nel 2021, quando 9 operai del Bangladesh denunciarono condizioni di sfruttamento da parte dell’azienda di stuccatura e verniciatura che li impiegava nei cantieri: 350 ore effettive al mese, con una paga oraria reale di 5 euro l’ora. In più, una parte di stipendio doveva essere “retrocessa” al datore di lavoro, pure lui originario del Bangladesh. Quando il lavoratore prelevava lo stipendio con il bancomat, ne metteva da parte una fetta da consegnare al caporale. «Fu un caso isolato – ridimensiona Paolo Faconti, direttore generale di Confindustria La Spezia – ma bene ha fatto il nuovo questore a richiamare l’attenzione su rischi che purtroppo ci sono ancora. A suo tempo li abbiamo affrontati in modo tempestivo insieme alla prefettura e ai sindacati: non possiamo accettare queste logiche, abbiamo tutto l’interesse a promuovere legalità e inclusione».
Ne nacque un protocollo d’intesa che fissò alcune buone pratiche e soprattutto portò all’apertura di sportelli di ascolto in alcune aziende nautiche del cosiddetto “miglio blu” di La Spezia, dove vengono realizzati yacht di lusso con pochi eguali al mondo. Da allora sono stati fatti molti passi avanti, anche se i buoni propositi si infrangono spesso contro una mentalità che è figlia di una cultura differente, dove diritti e doveri sono concetti molto sfumati e approssimativi. «In Bangladesh non c’è tradizione sindacale – spiega Florentina Stefanidhi, presidente di Mondo Aperto, la cooperativa di mediazione culturale che gestisce gli sportelli –, la contrattazione collettiva è applicata solo da alcune multinazionali. Per il resto tutto è affidato alle relazioni personali, che spesso diventano rapporti di potere. Per un ragazzo del Bangladesh è normale pagare una tangente a chi gli ha trovato un posto. Una dinamica che si ripete anche all’arrivo in Italia. Qui a La Spezia ci sono due fazioni che si spartiscono il mercato del lavoro, con i più prepotenti che diventano piccoli boss capaci di imporre le loro regole. Se uno non paga subisce minacce e rischia di subire conseguenze. Spesso si tratta di violenze nascoste, difficili da individuare. Ad esempio, in caso di mancanza alla parola data, può bruciare un appartamento…».
Omertà e sudditanza difficili da spezzare. «Per risolvere la situazione serve un processo di crescita culturale, che stiamo cercando di promuovere con sindacati e Confindustria. Uno sforzo di rete che sta dando i suoi frutti: proprio per questo bisogna insistere e non abbassare la guardia».Secondo la Cisl spezzina il quadro è migliorato, ma le zone d’ombra restano. «Dopo l’introduzione del protocollo c’è più attenzione – dice il segretario generale Antonio Carro – però resta ancora molto da fare. Ogni giorno nei cantieri entrano migliaia di lavoratori, di cui circa 2mila tramite ditte esterne: occorre garantire a tutti condizioni lavorative adeguate. Penso ad esempio agli spogliatoi e alle mense». Senza contare i rischi corsi dai ragazzi del Bangladesh – tutti di età compresa fra i 20 e i 30 anni – per recarsi al lavoro. Dalla zona di piazza Brin, dove vive la cosiddetta comunità bangla, fino a Fincantieri (che chiude il “miglio blu” a sud est), sono circa 9 chilometri. «Arrivano con mezzi di fortuna, tipo bici o monopattini – rileva Carro -, esponendosi al rischio di incidenti. Inoltre in molti casi vivono in appartamenti sovraffollati. Insomma, i nodi da affrontare sono ancora molti». Vale la pena provarci, ribadisce Florentina Stefanidhi, perché «questa è la società di domani, che stiamo tentando di costruire».