Si torna a sparare a Palermo. Dopo due anni di "silenzio", alla vigilia del 25esimo anniversario della strage di Capaci, Cosa nostra torna a farsi sentire. E lo fa seguendo un copione classico: la vittima, Giuseppe Dainotti, 67 anni, nome storico dei clan, tra gli imputati del maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone, è stata affiancata da due killer, mentre era in strada in bicicletta. I sicari
sarebbero stati a bordo di una moto. Condizionale d'obbligo visto che, nonostante fosse giorno e la zona fin dalla mattina
sia molto animata, nessuno ha visto nulla.
Solo una tunisina che vive a poca distanza dal luogo del delitto, via D'Ossuna, quartiere Zisa, ha raccontato di aver sentito tre colpi di pistola, di essersi affacciata al balcone e aver visto l'uomo a terra.
Secondo i primi accertamenti - l'autopsia si è conclusa in serata - sarebbe stato colpito con tre colpi di pistola 357 Magnum a tamburo: perciò a terra non sono stati trovati bossoli. Gli inquirenti raccontano che Dainotti sarebbe stato preso al torace; poi uno dei sicari gli avrebbe dato il colpo di grazia sparandogli alla nuca.
Il boss, ex fedelissimo dello storico capomafia Salvatore Cancemi, poi passato tra i ranghi dei pentiti, era uscito dal carcere a marzo del 2016 dopo aver scontato 25 anni per omicidio, traffico di droga e rapina: il colpo miliardario messo a segno da Cosa nostra al Monte dei Pegni. Il suo nemico storico, Giovanni Di Giacomo, come lui capo nel mandamento di Porta Nuova che già alla fine degli anni 80 Dainotti aveva avuto l'ordine di uccidere, l'aveva condannato a morte già tre anni fa, quando si seppe che, grazie alla cosiddetta legge Carotti, l'ergastolo che gli era toccato per una lupara bianca si sarebbe trasformato in una condanna a 30 anni. "... Sarebbe per me… una sconfitta di vita… se questo ora s'assietta (si siede ndr)... però siccome ha il carbone bagnato ora dobbiamo vedere di farlo subito… oppure farlo scomparire… hai capito? appena questo esce… ha le corna malate", diceva Giovanni Di Giacomo, dal carcere, al fratello Giuseppe. Solo che Giuseppe non poté portare a termine il compito perché venne ucciso qualche mese dopo. E i carabinieri fermarono la nuova escalation di sangue con una serie di arresti.
"Quando è necessario la mafia torna a sparare in modo evidente e simbolico. Uccidere Giuseppe Dainotti in pieno giorno, nel centro di Palermo, il 22 maggio, può avere diversi significati", ha detto il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi che coordina, insieme al pm Caterina Malagoli, le indagini sull'omicidio affidate a carabinieri e polizia. "Allo stato è prematura qualsiasi valutazione o ipotesi - ha aggiunto il procuratore, parlando con i giornalisti, dopo aver partecipato al plenum del Csm che ha commemorato Giovanni Falcone - Però, come abbiamo detto più volte, quando qualcuno ritiene che la mafia non c'è più o che è stata debellata, succede qualcosa che conferma che la mafia è sempre là".
Ricostruire contesto e movente del delitto non è semplice: il mandamento di Porta Nuova, tra i più ricchi della città, è stato
spesso al centro di forti fibrillazioni. E gli assetti sono fluidi: a ogni operazione di polizia segue una fisiologica riorganizzazione. Vecchi boss tornano liberi e tentano di riprendere il comando, nuove leve finiscono dietro le sbarre in un avvicendarsi continuo di capi e gregari. Pur nella complessità della situazione gli inquirenti ipotizzano al momento due piste: quella di una Cosa nostra che non dimentica i suoi progetti di morte e colpisce, quando può, a distanza di anni e quella di una nuova fibrillazione in seno al mandamento.