Anticipiamo una parte della prefazione del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, al nuovo volume della collana “Pagine prima”, realizzata da Vita e Pensiero in collaborazione con Avvenire. In Prima dei fatti (pagine 132, euro 14,00) sono raccolti i testi dell’omonima rubrica tenuta da Sergio Zavoli sulla prima pagina del nostro quotidiano negli ultimi mesi del 2015. Come scrive nell’introduzione il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, «sono parole buone sempre, e specialmente per il tempo che viviamo in cui purtroppo tanti sono tornati a confondere il bianco e il nero, il bene e il male, e si tende a radicalizzare tutto, cancellando le infinite sfumature di colore che rendono affascinante l’esistenza, che alimentano l’ansia di giustizia e di bellezza, che sostengono la fiducia e la speranza». Il libro, che esce a pochi mesi dalla morte di Zavoli (avvenuta a Roma il 4 agosto scorso), è accompagnato da un ampio saggio critico di Rosita Copioli.
L’ultimo libro che ho ricevuto con dedica da lui è forse anche il suo estremo: era una raccolta di poesie molto intense, essenziali, delicate già nel titolo, Le strategie dell’ombra. Era il 2017, e questo vocabolo crepuscolare era in capo anche a un’altra sua opera, La parte in ombra del 2009. Il mio legame con Sergio Zavoli potrebbe essere definito con una sorta di ossimoro, un’«amicizia implicita». Sì, perché i nostri incontri furono rari, così come i dialoghi espliciti. In particolare ne ricordo uno alla Biblioteca del Senato, durante una tavola rotonda attorno a un tema capitale nella sua biografia, quello della comunicazione. Credo fossimo attorno al 2010 e non si era ancora dispiegata in tutta la sua potenza, ma anche violenza, l’odierna infosfera con le sue reti incandescenti. La sua era, però, in quell’orizzonte un’esperienza così ricca, creativa e appassionata che – ne ho una memoria ancora viva – egli poteva già intuire e persino affacciarsi su quel nuovo mondo che stava delineandosi. E lo faceva sempre col suo stile che non era solo pacato e calibrato ma era anche incisivo e decisivo; la sua era, come ha scritto il nostro maggior critico televisivo, Aldo Grasso, «una voce ferma ed empatica». Zavoli intrecciava competenza e sapienza, immediatezza e profondità e tutta la sua imponente opera comunicativa e saggistica ne è un’attestazione indiscussa, che ha ricevuto il riconoscimento corale e unanime proprio alla fine della sua esistenza patriarcale. Ogni altra considerazione, al riguardo, sarebbe inutile: egli è stato il testimone colto e popolare della grandezza della parola e dell’immagine, un’eredità preziosa in un tempo in cui esse sono spesso violate, ferite, umiliate, imbruttite. Ma a questo punto desidero aggiungere una nota personale duplice, che cerca di spiegare proprio quell’asserto sulla nostra «amicizia implicita».
La prima osservazione è quasi solo estrinseca eppure significativa. Come un numero enorme di italiani, anch’io sono stato in sua compagnia attraverso le trasmissioni da lui create e condotte che seguivo fin da giovane con un coinvolgimento spontaneo. Ma questo aspetto quasi «materiale» ha avuto successivamente una svolta inattesa, ed è di questo che desidero fare memoria. Siamo stati insieme, infatti, sulla carta stampata, a partire dal 1993 quando accettò di intervenire all’interno di un progetto collegato alla rivista allora più diffusa, Famiglia Cristiana, per una Bibbia che stavamo allestendo in una serie sterminata di fascicoli allegati al settimanale e approdati poi in dieci volumi. A lui, in sintonia con la sua sensibilità di «socialista di Dio», assegnai nel 1997 un commento ad Amos, il profeta contadino e pecoraro, implacabile indice puntato contro la corruzione del potere politico ed economico del regno di Israele nell’VIII secolo a.C. Ho riletto quel testo che non ha nulla dell’enfasi tipica dell’invettiva, genere pur adottato dal profeta, ma che rivela il fremito per «la dimensione orizzontale del credere, la quale ci attraversa e coinvolge tutti». Con finezza ermeneutica Zavoli non riduceva, però, la voce del profeta a quella di un pur legittimo oratore sociale che denuncia un regime, ma ne intuiva la dimensione religiosa autentica che si ribella a un culto ipocrita, incapace di unire rito e vita, fede e giustizia, mani levate in orazione e mani che sollevano il misero. La finale di quel mini-saggio era significativa nella sua sinteticità icastica: «Questo è Amos, il profeta che taglia in due il privilegio per separare il giusto dall’ingiusto e ricucire la divisione in due parti uguali, perché l’armonia è la legge del Signore». Questo incontro sulla pagina, pur nell’assenza del dialogo diretto, è continuato a lungo e altrove. Al riguardo, devo riconoscere di aver peccato d’orgoglio quando nel 2015 – avendo deciso di concludere la mia rubrica Mattutino, durata oltre quindici anni – il direttore di Avvenire mi comunicò di aver pensato proprio a Sergio Zavoli. Era una successione per me emozionante, essendo stato appunto per certi versi un «discepolo » come lettore e spettatore di questo maestro della comunicazione. [...]
Realmente Zavoli è stato sempre sul crinale tagliente del presente con lo sguardo rivolto al futuro, all’oltre, all’altro, all’atteso e all’imprevedibile. Ma non era stata neppure questa l’altra nostra vicinanza attraverso la parola scritta. Ce ne fu una ulteriore più antica e più continua. Un mensile ecclesiale molto coraggioso e capace di scavare in profondità nei temi religiosi, Jesus, a cui collaboravo fin dalla fondazione avvenuta nel 1978, decise di affidare a Sergio Zavoli una rubrica fissa. Era il 1991, e da quell’anno fino al 2002 siamo stati colleghi di pagina. Il titolo da lui scelto per il suo spazio, tenue nell’immagine adottata, era paradossalmente folgorante, La lanterna: il delicato bagliore di una lampada – come scriveva – voleva gettare «un po’ di luce nel buio delle presenti certezze e delle tragiche leggerezze ». Ed è proprio da una di quelle sue pagine che traggo una luminosa eppur drammatica preghiera poetica che permette di passare al secondo profilo del mio legame con l’amico “implicito”: «Non perdere la fede in ciò che hai fatto, / Padre nostro, / non pentirti, non hai soffiato invano / sulla creta… / Non ritrarti, non rompere il disegno / di sfiorarci nel sogno con le mani, / non affidarti alle tue sole forze; / senza noi, le preghiere, i lamenti, / le bestemmie, persino gli abbandoni, / di chi saresti Padre?». L’altra dimensione indiretta era nata e si era sviluppata proprio dall’interesse «teologico » che animava Zavoli. Egli era un credente nel senso “grammaticale” del termine: il participio presente ammonisce, infatti, che non si crede una volta per sempre, come accade per l’eventuale timbratura confessionale «di religione cattolica ». La fede è un’incessante conquista, un’ininterrotta ricerca, un cammino verso l’infinito e l’eterno e, quindi, non è un possesso consolidato, una pietra preziosa da custodire in una teca. Per questo egli è stato un ammiratore della spiritualità del cardinale Carlo M. Martini.