Il quarantenne maestro israeliano Omer Meir Wellber, direttore principale del Teatro Massimo e futuro direttore della Volfsoper di Vienna
«Sono nato nel deserto. Chi non conosce il deserto, quando lo guarda dice: “È il nulla”. Invece, chi lo conosce si chiede: “Qual è il suo potenziale?”. Così abbiamo fatto durante la pandemia». La singolarità di Omer Meir Wellber sta portando un ciclone di aria fresca nella vita musicale europea. Israeliano, 40 anni, compositore, direttore principale del Teatro Massimo e della BBC Philharmonic, dal 2022 lo sarà anche della Volksoper a Vienna. La motivazione con cui la giuria dei critici musicali italiani gli ha appena assegnato il Premio Abbiati è esplicita: “Il Teatro Massimo ha trovato in Wellber una guida piena di energia e soprattutto di idee musicali. Confermando un nuovo profilo, a tutto tondo, per il ruolo di direttore principale e musicale di cui non potremo fare a meno”.
La crisi che stiamo vivendo come una nuova opportunità?
La prima decisione è stata quella di lavorare e andare il meno possibile in cassa integrazione, come invece hanno fatto tanti altri teatri italiani, penalizzati dal fatto di non avere un direttore musicale, una guida artistica capace di indicare dei percorsi comuni con i dipendenti del loro teatro.
Il crepuscolo dei sogni, un film dedicato a Mozart, una serata jazz nella chiesa sconsacrata dello Spasimo, una maratona beethoveniana e, prima del primo “tutti a casa”, Parsifal di Wagner con la regia di Grahm Vick: i cavalieri del Santo Graal erano siciliani emigrati di ritorno. Che cosa significa questo attivismo, quale l’idea portante?
La chiamo politica del teatro sociale, o se preferisce dimensione civile del mestiere di direttore d’orchestra. A me non piace la medicina di oggi, con i dottori iper-specializzati che sanno curare una sola parte del corpo, e poi magari scoppia la pandemia. Un musicista responsabile deve avere come meta la salute di tutto l’insieme che sta attorno a lui, in teatro e fuori del teatro.
Teatri e sale da concerto hanno riaperto, sia pure con le necessarie limitazioni. E vi state già attrezzando per la vostra storica stagione estiva, al Teatro di Verzura. Non mi dirà che rimpiange il periodo di chiusura...
Quello che non vedrete a Palermo è il ritorno alla realtà di prima, sarebbe una drammatica scemenza. Continuerà l’impiego delle telecamere per realiz- zare dei video con una regia professionale, continueremo a registrare i concerti prestando grande attenzione alla qualità del suono. I nostri fonici hanno dimostrato di essere bravissimi, forse prima nessuno aveva chiesto loro un tale impegno. Abbiamo tutti capito che in tempo di Covid dovevamo aprire la testa, confrontarci, non pensare soltanto al nostro particolare. Quando il teatro diventa un luogo di lavoro vero, tutti vogliono partecipare. Scattano degli importanti valori simbolici e molto concreti: collaborazione, consapevolezza del contesto.
Il pubblico tornerà?
Sono preoccupato per i teatri che hanno fatto la scelta più facile, puntando sui titoli popolari e pensando soprat- tutto ai turisti: Vienna, la Scala, la Fenice. Ma quanto tempo ci vorrà perché a Venezia ritornino milioni di turisti all’anno? E nel frattempo, che cosa accadrà? Noi abbiamo puntato sul pubblico siciliano, che è l’80% del nostro pubblico. Quando abbiamo messo in scena Parsifal, che certamente non è un titolo facile, non si trovava un biglietto, perché la città ha vissuto questo spettacolo come un suo spettacolo, una sua storia.
“Avevo undici anni quando un mattino di shabbat andai con mio padre alla nostra sinagoga. Lungo la strada ci lanciarono insulti”. È l’inizio del suo primo romanzo, Storia vera e non vera di Chaim Birkner, pubblicato da Sellerio. Protagonista un ragazzino ebreo che ha 11 anni nel 1941, quando l’orrore hitleriano sta diventando realtà e che immagina diventato l’uomo più vecchio di Israele. Lei è musicista, perché un esordio letterario?
Ho fatto fatica. La musica non ha così tanto bisogno di parole precise come lo esige la letteratura, anche se un musicista quando parla pensa sempre di essere molto chiaro, ma non è così. Per otto anni ho raccolto materiali, senza decidermi a scrivere. E finalmente ho capito che questo libro dovevo finirlo, per dare un senso alla memoria, mia e del mio paese.
L’amore per la sua terra e il suo popolo, non le impedisce di essere critico verso l’oltranzismo religioso e la politica di Benjamin Netanyahu. Finirà mai il conflitto con i palestinesi?
Ormai da quindici anni, durante le tante campagne elettorali non si parla più di pace con i palestinesi. Netanyahu è riuscito a far scomparire l’argomento “pace” dall’agenda politica israeliana, dal dibattito. In Europa non si ha percezione di questo, ma in Israele non è più un argomento di discussione. C’è ancora un filo di speranza: prendere atto che insieme non riusciamo a stare e mettersi d’accordo per divorziare Un matrimonio mai riuscito e talmente infelice deve diventare un bellissimo divorzio, con delle regole stabilite e rispettate da tutti e due.
Il 25 aprile, noi italiani abbiamo festeggiato la Liberazione dal nazi-fascismo. Per lei che significato ha quella giornata?
Non ci siamo liberati dal nazi-fascismo. Ha cambiato faccia, obiettivi, o ha imparato a nasconderli, ma esiste ancora. Queste giornate, compresa quella dedicata da Israele alla Shoah, mi sembrano un prezzo da pagare, col rischio che gli altri giorni dimentichiamo. Per quanto posso, preferisco vivere tutto l’anno dentro la Liberazione, dentro la Shoah. Dentro le meraviglie e gli orrori della vita.