Un disegno di Matteo Matteucci per il graphic novel "Árpád Wisz e il littoriale"
La Storia spesso, anche involontariamente, fa passaggi imprecisi, finte di corpo, mettendo in fuorigioco le storie dei grandi uomini: ma la memoria di cuoio no, e così, con il tempo, è andata a strappare dall’oblio la vicenda umana e sportiva di Árpád Weisz. Un antesignano di tutti i presunti “special one” della panchina, l’ungherese di Solt, classe 1896, ex calciatore (ala sinistra) con il bernoccolo del condottiero da bordo campo, la cui cifra peculiare era la «modestia». Materia di studio nel suo manuale Il giuoco del calcio. Un testo epocale, scritto da un autentico stratega e fine ricercatore della tattica calcistica. Un prezioso vademecum adottato, ai tempi, da tutti i tecnici in carriera e dagli aspiranti allenatori. Fu pubblicato nel 1930 (dall’editore Corticelli), stagione in cui allenava l’Inter e con la fascistizzazione, anche del calcio, il suo nome divenne Veisz e quello del club Ambrosiana. Il manuale lo scrisse a quattro mani con Aldo Molinari, il “papà” dei direttori sportivi, figura professionale creata ad hoc dal presidente dell’Ambrosiana-Inter Oreste Simonotti. Weisz invece vanta un record ancora insuperato: è stato il tecnico più giovane a vincere lo scudetto in Serie A.
Il primo titolo lo conquistò nella stagione nerazzurra 1929-’30, quando aveva appena 34 anni. Aveva invece vent’anni il suo “Peppino”, Giuseppe Meazza quando lo fece debuttare 17enne pronosticandogli un futuro da «fuoriclasse». Meazza era «il “folbèr” allo stato puro» secondo lo scriba massimo di calcio Gianni Brera che aveva conosciuto e apprezzato Weisz dai racconti del suo allievo prediletto. «Ricordo ancora la sua pazienza durante i lunghi allenamenti – raccontava Meazza – . Orologio alla mano, Weisz alla fine di ogni corsa mi sorrideva: “Bravo il mio Peppino, però puoi andare più veloce. Puoi fare meglio. Puoi riprovare un’altra volta?”». In Il giuoco del calcio - ora ripubblicato (Minerva Editore. Pagine 222. Euro 18,00), si trovano i capitoli fondamentali in cui sembra di riascoltare la voce del mago ungherese che didattico invita alla «Velocità» e agli «Esercizi che servono a migliorare il fiato». Applicazione, unita a una tecnica fuori dal comune fecero del giovane Meazza un bomber da 31 gol in 33 partite in quella prima cavalcata tricolore di Weisz che poi sarebbe andato a fare le fortune del Bologna. Con lui i rossoblù divennero la squadra irresistibile che «tremare il mondo fa».
Due titoli di fila, dal 1935 al ’37, prima della “tragica sconfitta” che però avvenne fuori dal campo di gioco. Le oltraggiose leggi razziali del 1938 costrinsero Árpád e la sua famiglia, di religione ebraica, alla fuga. L’ebreo er- rante e non più il grande stratega del football riparò a Parigi e da lì nell’Olanda di Anna Frank con sua moglie Elena e i figli Roberto e Clara. Nei Paesi Bassi sembrava aver trovato il giusto riparo dalla follia nazista. Weisz con l’assist di una serenità apparente, trovò il tempo di dedicarsi ancora al calcio allenando la squadra di Dordrecht, il paese che ospitava la sua famiglia. Salvò il piccolo club dalla retrocessione, dando spettacolo e lezioni di calcio persino al blasonato Ajax. Ma lui e i suoi cari non riuscirono a salvarsi dalla deportazione. L’uomo che predicava in anticipo sui tempi la necessità del lavoro del «centromediano metodista» e della fuga sulle fasce da parte dei terzini, un giorno dell’ottobre del ’42 si sentì braccato. «Pazienza e rispetto», i dogmi di una vita faticarono a restare in piedi dopo che venne diviso dalla sua famiglia. Elena e i piccoli Roberto (12 anni) e Clara (8) vennero subito annientati nella camera a gas del campo di concentramento di Auschwitz. Weisz venne spedito in un campo di lavoro nell’Alta Slesia. In quell’ottobre del ’42, un altro suo discepolo, il terzino del Bologna Mario “Rino” Pagotto, venne arruolato come alpino e l’8 settembre del ’43 fatto prigioniero dalle SS. Il buon Rino cuore rossoblù venne rinchiuso nel campo di Hohenstein (Prussia dell’Est).
«Lì passarono 650mila prigionieri (soldati francesi, belgi, serbi, sovietici e italiani), e 55 mila di questi vennero bruciati in delle pire all’interno del cimitero di Sudwa, non lontano dal campo», ricordava il prigioniero “DA8659” («nemmeno cento numeri più dello dello scrittore Rigoni Stern, prigioniero anche lui»), che da Hohenstein fu trasferito al campo di lavoro di Bialystok, in Polonia. Pagotto, la cui storia si può leggere nel libro di Giuliano Musi Un calcio anche alla morte (Minerva) amava ricordare il primo monito del suo mister Weisz quando dal Pordenone arrivò nel grande Bologna: «Osare in campo è sempre meglio che trattenersi». Rino il terzino metodista dello scudetto del ’36 (poi ne avrebbe vinti altri due nella stagione 1938-’39 e 1940-’41) osò anche sul campo di Cernauti. L’ultima prigione in cui come “un Weisz” si improvvisò calciatore- allenatore di “Quelli di Cernauti”, la squadra con la quale a Sluzk (nei pressi di Minsk) «osò » sfidare gli undici messi in campo dell’Armata Rossa, ridicolizzandoli con un quasi cappotto, 6-2. Scene da fuga per la vittoria. «Noi nel lager ad ogni partita ci giocavamo davvero la vita», disse Pagotto che poté festeggiare la sua liberazione «il 18 ottobre del 1945». Tornò ad abbracciare la Giuseppina e i compagni del suo Bologna con i quali giocò ancora appendendo gli scarpini al chiodo nel 1948. Ma fino all’ultimo (è morto nell’agosto del ’92) di tutte le sfide, Rino ricordava quelle di cui fu testimone anche Primo Levi (ne I sommersi e i salvati) disputate nei campi dei lager nei «giorni in cui l’uomo era divenuto cosa agli occhi degli uomini».
A Weisz, il vero manuale vivente del calcio, l’esistenza venne invece spezzata ad Auschwitz, il 31 gennaio 1944, nelle stesse camere a gas dove erano spirati i suoi tre amori. C’è voluto del tempo, e tutta la passione di Matteo Marani (autore di Dallo scudetto ad Auschwitz: vita e morte di Arpad Weisz, allenatore ebreo per riportare alla luce la straordinaria figura del tecnico ungherese vittima della Shoah. L’uomo verticale Árpád , il Maestro che il suo pupillo Peppino Meazza non aveva mai dimenticato: «Gli volevo davvero bene e il giorno che mi comunicarono la sua morte, provai lo stesso dolore di chi perde un padre».