Lo scrittore britannico Evelyn Waugh - Archivio Avvenire
Nel libro intitolato La coscienza e il romanzo (2002) David Lodge scriveva: «I primi romanzi di Evelyn Waugh probabilmente hanno regalato più gioia a un maggior numero di lettori di quanto abbia fatto qualsiasi altra raccolta paragonabile di opere di narrativa inglese dello stesso periodo (19281942)». Era quasi impossibile che, nel segno della stravaganza e d’un indomito senso di libertà, d’una certa disposizione all’insolenza e alla satira, ma soprattutto della felicità di vivere, Lodge, critico letterario e narratore londinese del 1935, e il romanziere Waugh, nato nella stessa capitale 32 anni prima, non si incontrassero. Sicché ci pare naturale leggerli ora l’uno a fronte dell’altro, così come l’editore Bompiani ce li propone, mandando in libreria, del secondo, L’autobiografia di un perdigiorno (1964; pagine 368, euro 28,00), scritto quasi a ridosso della morte avvenuta due anni dopo, mentre, del primo, pubblica La fortuna dello scrittore. Memoir 1976-1991( 2018; pagine 464, euro 34,00), che, per altro, segue a distanza di tre anni Un buon momento per nascere. Memoir 19351975.
Che Waugh prosatore fosse un punto di riferimento non solo letterario di Lodge era del resto fatto noto, che lo stesso scrittore ribadisce proprio all’inizio di questo suo secondo libro autobiografico, là dove confessa di averne subito l’influenza insieme a quella di Graham Greene, «autori cattolici la cui visione era essenzialmente antiumanistica e privilegiava il dramma soprannaturale del peccato e della salvezza rispetto al perseguimento mondano del progresso materiale». Ma andiamo con ordine e concentriamoci su Waugh: mettersi sulle sue tracce, assecondarne il passo e la prosodia, comprenderne l’abbecedario delle passioni, significa probabilmente predisporre anche e in qualche modo un’introduzione all’opera di Lodge. Sentite qua, a proposito del padre, che viveva tutto con grande teatralità: «In politica si sarebbe definito un Tory ma, avendo sempre abitato in solide circoscrizioni conservatrici, non andava a votare». E ancora: «Non sapeva niente di economia o di politica estera ed era annoiato da ogni menzione se ne facesse». E poi: «Non aveva nulla da obiettare all’imperialismo quando assumeva la forma metrica del lavoro di Kipling o Henley; né al nazionalismo irlandese se espresso dai poeti celtici». Si direbbe il perfetto e serioso padre d’«un perdigiorno », appunto. Ma con una qualità che per il giovanissimo Waugh fu decisiva: «Per lui la parola era tutto». Fu proprio questo padre, in effetti, a instillargli l’amore per la letteratura, fino a saturargli la «giovane mente»: grazie alla sua lezione, Waugh non pensò mai «alla letteratura inglese come a una materia scolastica, oggetto di analisi e sistemazione storica, bensì come una sorgente di pura gioia». Ciò nonostante, relativamente all’educazione del figlio da cui era ossessionato, ne combinò di tutti i colori.
Per fare un esempio: seppure “consapevole” d’aver vissuto un’esperienza scolastica e universitaria sempre in ritardo e costantemente impegnata a «recuperare il terreno perduto», non mancò di mettere il figlio «esattamente nella stessa situazione». Waugh e Lodge sono stati entrambi scrittori cattolici con profonde affinità, senz’altro discendenti per i rami d’uno stesso albero genealogico, ma con una differenza decisiva: se il primo, infatti, è stato un prosatore di personalità prepotente e di estro incontenibile, il secondo, che non difetta certo per temperamento, resta soprattutto un intellettuale, disorganico quanto si voglia, ma sempre impegnato a collocare la sua vicenda letteraria entro una più larga e coerente storia culturale, che gli ha per altro consentito una brillante carriera accademica.
Non per niente questa ricostruzione della sua vita in due volumi coincide innanzi tutto con una storia della sua opera, restituita anche nelle sue implicazioni editoriali e commerciali. Si direbbe che in lui la biografia tenda continuamente a tradursi in bibliografia, provando a risolversi del tutto in essa. Per capire che tipo di intellettuale sia Lodge, basterebbe pensare alle numerose pagine che riserva, negli anni, al Booker Prize, alla sua storia e ai suoi vincitori, premio per il quale fu candidato due volte, ma senza successo, coi romanzi Il professore va al congresso (1984) e Ottimo lavoro, professore! (1988). Epperò la vita vera, ricacciata nelle retrovie, non manca spesso di riprendersi la sua centralità, non importa se gaia o dolorosa. Sempre intense le parti di La fortuna dello scrittore sulla consorte: «La fede di mia moglie Mary è profonda e forte e non essenzialmente intellettuale.
Non volevo turbarla o creare una barriera tra di noi con i miei dubbi e desideravo che i miei figli avessero un’educazione religiosa». Ma questo suo grande amore per la coniuge, così pieno di stima e ammirazione, non lo esime da una sincerità totale: «I principi della mia educazione cattolica senza dubbio ebbero un peso, sebbene non credessi più di poter mettere la mia anima immortale in pericolo commettendo adulterio». E poi: «Il fatto è che sono tendenzialmente monogamo, come mio padre. La sicurezza emotiva di un matrimonio basato sul contratto tradizionale ha per me un grande valore e trovo che non diminuisca il desiderio». Senza dire di quelle pagine struggenti che Lodge dedica al suo terzo figlio, Christopher, affetto dalla sindrome di Down. Vi s’accampa un padre che non potrebbe tollerare la minima mancanza di rispetto alla sua creatura, il minimo attentato al suo diritto di essere felice: «Come ho spiegato in Un buon momento per nascere fu una fortuna che fosse nato in un tempo in cui l’atteggiamento nei confronti delle persone Down stava cambiando per il meglio». E ancora: «Fu particolarmente fortunato perché viveva a Birmingham dove la fruibilità di istruzione speciale era molto buona». Ecco un altro buon motivo per leggere le due autobiografie una dopo l’altra: per rendersi conto di che storia sia stata, in termini di civiltà, quella dell’Inghilterra del secolo scorso.