La storia di Waris Dirie, piccola guardiana di capre, comincia nel deserto della Somalia, tra una famiglia di nomadi con dodici figli. La sua infanzia è stata quella del 98% delle bambine somale: vittima dell’infibulazione a soli 5 anni, venduta da padre a 13 anni per diventare la moglie di un vedovo di 60 anni. Waris non accetta il suo destino, fugge a Mogadiscio e poi a Londra, lavorando come domestica nella residenza di uno zio ambasciatore. Quando l’uomo viene richiamato in Somalia, lei decide di restare in Inghilterra, sola e analfabeta, guadagnandosi da vivere con umili mestieri. Finché un giorno Terry Donaldson, celebre fotografo della Swinging London degli anni Sessanta e poi della principessa Diana, la nota e la convince a posare. Per Waris, oggi 51enne (ma la sua data di nascita è incerta perché non è mai stata registrata nel suo villaggio di origine) è l’inizio di una folgorante carriera da fotomodella e indossatrice, e proprio al culmine del successo la giovane donna trovò il coraggio di raccontare la propria storia diventando simbolo e portavoce della campagna Onu contro le mutilazioni femminili. Si calcola infatti che le bambine africane vittime di questa crudele pratica siano quasi 95 milioni. Per questo suo impegno umanitario Waris è stata insignita della Legion d’onore nel 2007. Legata da un vincolo di parentela con un’altra super modella, Iman, vedova di David Bowie, nel 1987 è stata anche una Bond Girl in
Agente 007 – Zona pericolo prima di diventare la protagonista del film
Fiore del deserto, una coproduzione Regno Unito, Germania, Austria che K2 film-Ahora! Film nelle nostre sale da ieri. Ma il film, fiaba su una moderna Cenerentola, è stato realizzato nel 2009, ed era passato quasi inosservato alla 66esima Mostra del Cinema di Venezia, ben sette anni fa, nella sezione Giornate degli Autori. Diretto da Sherry Hormann a partire dall’autobiografia della Dirie (edita da Garzanti), il film mescola volutamente toni e stili diversi, per restituire la complessità di un percorso umano costellato di drammi e gioie, dolore e leggerezza, lacrime e risate. Ed ecco dunque alternarsi, grazie a un continuo avanti e indietro nel tempo, l’asciutto, efficace racconto della dura infanzia di Waris, compresa l’agghiacciante sequenza sulla disumana pratica dell’infibulazione, e quello della sua rinascita sotto i riflettori, sulle passerelle. Le costose scarpe indossate dalla modella possono solo temporaneamente nascondere le cicatrici che segnano i suoi piedi, gli splendidi vestiti che indossa fanno dimenticare solo in parte la sofferenza di un corpo che la violenza ha segnato per sempre. Dal polveroso deserto alle sfilate di Parigi e New York, il film oscilla tra due estremi che non sempre la regista riesce ad accostare con perizia. Nell’economia del racconto avrebbero infatti giovato più momenti dedicati al suo impegno per le donne, o all’approfondimento psicologico di Waris, e meno spazio per servizi fotografici glamour e patinati, pensati per esaltare la filiforme bellezza dell’attrice e modella che interpreta la protagonista, Liya Kebede. Al suo fianco Sally Hawkins e Timoty Spall, due icone del cinema britannico, nei panni rispettivamente dell’aspirante ballerina che offrirà rifugio e amicizia a Waris e in quelli del fotografo destinato a cambiare per sempre la vita della giovane somala. Il film però raggiunge il suo obiettivo, quello di accendere i riflettori su un tema così cruciale, e la Fondazione Fiore del deserto creata dalla ex modella continua a salvare ogni anno migliaia di bambine destinate a una inutile sofferenza.