martedì 2 aprile 2019
Dall’ultimo rapporto Aic: circa 500 episodi intimidatori negli ultimi cinque anni. Il 59% dei casi tra i professionisti, ma c’è razzismo e violenza anche tra i dilettanti e nei tornei giovanili
Il difensore senegalese del Napoli Kalidou Koulibaly, spesso al centro di episodi di razzismo nei nostri stadi

Il difensore senegalese del Napoli Kalidou Koulibaly, spesso al centro di episodi di razzismo nei nostri stadi

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Il calcio italiano è un colosso col cuore amareggiato dalle minacce e coi piedi inzaccherati di fango. A volte, quel fango proviene da insulti rivolti da tifosi ad altri tifosi, come domenica nel match Roma-Napoli, immiserito dai cori beceri di alcuni ultras giallorossi, inneggianti al Vesuvio. Altre volte, gli schizzi di melma hanno la forma di offese dirette a chi sta in campo, come i vergognosi “buuu” indirizzati tre anni fa da una parte della curva laziale a uno dei campioni di quello stesso Napoli, Kalidou Koulibaly, più volte involontario bersaglio di insulti a sfondo razziale. Purtroppo, il roccioso difensore azzurro è solo uno dei tanti calciatori bersagliati, dalla massima serie fino ai campetti scalcinati ed eroici dei dilettanti. L’ultimo rapporto dell’Associazione italiana calciatori, presieduta dall’ex campione della Roma Damiano Tommasi, è meticoloso e inquietante. In cinque anni, fra il 2013 e il 2018, l’Aic ha censito 478 azioni intimidatorie e minacciose verso i calciatori, in media 96 episodi per stagione. Non solo: dal campionato 2013-14 a quello 2017-18, le azioni di minaccia e di intimidazione censite sono aumentate del 95%, passando da 66 a 129. Il campionario di azioni e di orrori elencato nelle pagine del rapporto lascia basiti.

In molti casi la violenza verso i calciatori non è stata solo minacciata, ma esercitata: dagli striscioni offensivi ai cori razzisti; da insulti e sputi ai lanci di sassi, pietre, bottiglie, accendini, banane, uova e petardi; dalle scritte sui muri sino alle aggressioni fisiche (con «bastoni, cinghie, mazze da baseball, spranghe e coltelli») con calciatori feriti e ricoverati. E non sono mancati avvisi dal tono funereo («Croci sul campo, lumini da cimitero sulle panchine, epigrafi mortuarie») o furiosi vandalismi: «Reti delle porte staccate e bruciate, terreni di gioco danneggiati a colpi di piccone, spogliatoi distrutti». Come racconta non senza amarezza l’avvocato Fabio Poli, direttore organizzativo dell’Associazione italiana calciatori, «pure i dati della stagione in corso non sono rassicuranti. Pare che ci si stia abituando all’idea che, nel calcio, tutto sia “tollerabile”. Che, in fondo insulti, cori razzisti, lanci di oggetti, assalti durante gli allenamenti o perfino appostamenti sotto casa dei calciatori o minacce ai loro figli facciano perfino “parte del gioco”. In nessuna professione succede così. Come se si pensasse: sei noto e ben pagato, quindi ci può stare che tu sia insultato, minacciato o perfino malmenato… ». Così, dagli striscioni negli stadi, qualcuno passa perfino a imboscate sotto casa dei calciatori, nei ristoranti (è successo «a Torino, Roma, Manfredonia, L’Aquila, Cava dei Tirreni e Pescara») nei luoghi di vacanza, negli hotel dei ritiri…

«Quasi cinquecento episodi in cinque stagioni sono un’enormità - argomenta l’avvocato Poli - Un numero decisamente superiore al tollerabile, ammesso che una tollerabilità debba esserci. E ritengo che non si tratti del numero reale, sono solo gli episodi riportati dalle cronache o denunciati da chi li ha subiti. Ma c’è un dato sommerso che non viene alla luce, una serie di denunce non fatte, di parole rimaste in gola nei corridoi degli spogliatoi, forse per timore di ulteriori conseguenze». In generale, il 59% dei casi registrati riguarda i “lavoratori del calcio”, i calciatori professionisti di Serie A, Serie B o Lega Pro. Il restante 41% , invece, «è stato picchiato, intimidito e minacciato mentre voleva giocare a calcio per diletto». Dossier alla mano, le serie che hanno fatto registrare i dati più preoccupanti sono la A (52% dei casi nel campionato 2016-17, 43% nel campionato 2013-14, 36% nel campionato 2017-18) e la Lega Pro, col picco (35%) toccato nel campionato 2014-15. Poi c’è il far west dei campionati dilettantistici, con meno attenzione mediatica, meno barriere protettive e contatto più diretto tra calciatori e tifosi: le violenze sono una costante nel campionato di Eccellenza (nel 201415, 18% dei casi totali censiti). Poi vengono Serie D e Promozione, ma l’Aic ritiene «preoccupante pure il crescere di minacce, intimidazioni e atti di violenza fisica nei campionati giovanili», con la stagione sportiva 2017-18 che ha registrato quasi un caso su cinque, vedendo come “protagonisti cattivi”, in più di una situazione, «alcuni genitori che assistevano alle partite sugli spalti».

Nella loro scarna drammaticità, cronache e verbali di polizia sono inquietanti: campionato di Lega Pro, 25 febbraio del 2017, il Matera perde col Siracusa, è la quarta sconfitta consecutiva e un gruppo di ultras va sotto casa del por- tiere Marino Bifulco, prendendolo a calci e pugni sotto gli occhi atterriti di moglie e figlia. Oppure il caso del 28 gennaio 2018: nel campionato Juniores tra FC Biella e Pro Roasio, nel dopo partita un dirigente della squadra ospite va negli spogliatoi, discute e poi sferra un pugno in faccia a uno dei giocatori, 19enne, fratturandogli il setto nasale e lesionando la mandibola. Si allontana, ma viene denunciato dai carabinieri. Come se non bastasse, negli ultimi due campionati, si registra una novità: le minacce, oltre che reali, sono diventate anche virtuali, con l’aumento dei cosiddetti “haters” sulle piattaforme dei social network. Per presunti “svarioni” sul campo, o per opinioni espresse su Facebook o Twitter, sono finiti nel mirino calciatori di serie A come Claudio Marchisio, Riccardo Montolivo, Davide Santon, Leonardo Bonucci, Stefano Sorrentino, o Gigi Donnarumma. Alcuni di loro, dopo minacce a mogli o figli, hanno cancellato i profili, ma quasi tutti hanno saputo replicare da campioni, in modo pacato, facendo ricorso all’ironia, come Federico Bernardeschi, che ha dato dei “leoni da tastiera” a coloro che se l’erano presa con sua sorella, in attesa di un bimbo. «Non si può più sopportare che avvengano questi fatti», conclude Fabio Poli, perché «c’è una responsabilità nel tollerare, nel considerare “normali” avvenimenti o comportamenti che non sarebbero sopportati in qualsiasi altro ambiente. È giunto il tempo di essere intransigenti».

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