A trenta chilometri dal centro di Parigi, a Poissy, in aperta campagna e su una collinetta da cui domina come un tempio greco sull’intera vallata percorsa dalla Senna, la Villa Savoye è uno dei 'monumenti' dell’architettura moderna più controversi. Costruita fra il 1928 e il 1931, con cambiamenti continui e radicali del progetto iniziale, vista dall’alto e in pianta la villa rispecchia la costruzione formale dei quadri puristi di Le Corbusier e, come per i suoi dipinti, anche alla casa che gli commissionarono l’assicuratore Pierre Savoye e la moglie Eugénie, Le Corbusier era morbosamente attaccato. La considerava il distillato della sua poetica architettonica, ma forse molto di più. Nel 1960, mentre si discute del restauro dell’edificio, appare via via più evidente che lo si sta snaturando. Annota l’11 giugno 1960 Roger Aujame, architetto che aveva conosciuto Le Corbusier nel 1942 lavorando poi per sette anni nel suo atelier di rue de Sèvres: «Le terrazze sono svuotate del loro contenuto, il soggiorno non comunica più, i colori sono penosi... ».
Le Corbusier vuole mettere al sicuro il suo bene attribuendogli una nuova funzione museale ma con una versatilità che poteva allargarsi anche a ospitare la sua Fondazione, i Ciam ( Congressi internazionali d’architettura moderna), una esposizione permanente della sua opera di architetto oppure un itinerario che documentasse le tappe storiche dell’architettura moderna. Tutto è complicato, a cominciare dai retropensieri dello stesso Le Corbusier che dissimulano le sue vere intenzioni. Dopotutto, anche se abitata per un certo numero di anni, non è mai stata una casa. Forse fu, almeno nella mente di Le Corbu, un manifesto o un trattato d’architettura 'realizzato'. Un travaglio, certamente. Ovvero il palinsesto visionario del futuro che doveva realizzarsi; e, se anche volessimo ammettere che molte idee di Le Corbusier si sono affermate nel linguaggio comune dell’architettura, dovremmo però aggiungere che ben poco possiede l’incanto poetico di quel concerto lirico a Poissy. A cominciare dalle condizioni di partenza, dal contesto, la sommità di una collina, circondata dal verde, fiera di essere il punto ideale e silenzioso da cui scrutare il mondo tutto preso nel suo frenetico metabolismo. Oppure, come fanno intendere Susanna Caccia e Carlo Olmo nel saggio La Villa Savoye (Donzelli), essa è il sigillo autobiografico che l’autore vuole porre a una idea nuova dell’architettura che, in sé, è assolutamente antica. Libro importante, questo, e decisivo, di 'microstoria' lo definiscono gli autori, che per la prima volta seguono giorno per giorno, per non dire ora per ora, la complicata vicenda della tutela di questo bene che, come nessun altro, testimonia le contraddizioni, ma anche il sogno dell’architettura moderna.
La Villa Savoye non è soltanto un capolavoro del Novecento, è l’atto risolutore che non risolve nulla, è la gloria e la polvere di Le Corbusier che, ancora trent’anni dopo da quando faticosamente e tortuosamente l’ha portata a termine, si trova a guerreggiare con chi vorrebbe usurpargli il diritto di decidere su quella creatura che è quanto di più personale egli ha concepito e voluto, personale e assoluto, dunque un monumento a se stesso, al proprio genio, a una visionaria volontà di riportare l’architettura all’essenziale bellezza del Partenone, alla misura e al gioco dei volumi sotto la luce del sole, a quel-l’estetica meridiana che è allo stesso tem- po un mito e il demone che lo alimenta. Villa Savoye è Le Corbusier, il suo autoritratto ma anche il pegno che lo vincola all’eternità. Il sottotitolo del libro è l’indice del discorso: «Icona, rovina, restauro (19481968)». Non si parla anzitutto della sua costruzione, dunque, ma del suo mantenimento, ovvero soprattutto della tutela 'ideale' di un monumento che subì parecchi affronti: prima occupato dalle truppe naziste, per la sua posizione strategica «come osservatorio sulla vallata della Senna e sulle officine industriali che la popolano», poi da quelle alleate dopo la guerra, come scrivono gli autori sarà anche «un’autentica farm house » con frutteti di mele e pere. Il Comune di Poissy la volle trasformare, per qualche anno, in Maison des Jeunes, quando il sito verrà occupato da un liceo e attorno crescerenno case popolari (che «ne modificheranno profondamente le prospettive visuali»). Non so se Leonardo, Michelangelo, Bernini, David, Picasso si siano preoccupati tanto quanto Le Corbusier di preservare il loro mito. Il suo era il nome più citato negli anni Cinquanta e Sessanta, non soltanto per l’architettura, ma per l’immagine di ideologo del futuro, di profeta del moderno, di urbanista audace e tecnologo, pensatore del tempo e dello spazio che, prima ancora del costruire, ha rapporto con l’abitare (Heidegger l’aveva perfettamente inteso).
Le Corbusier non pensa l’architettura come costruzione, elabora una metafora di mondo e ne prende possesso senza inibizioni. Villa Savoye non è però il test per dimostrare che la razionalità è la soluzione di tutti i problemi; al contrario: la razionalità è al servizio della poesia, e la poesia è tale proprio perché sa mettere in forma il proprio metro. La poesia del moderno è sempre performativa, mentre genera se stessa detta anche le regole della sua interpretazione. Come notano giustamente gli autori del libro, la proporzione è la partita su cui si gioca la metafora della villa, ma «una proporzione non matematica, una proporzione che aiuta a transitare tra significati, usi e credenze della modernità» ( inventio del moderno). Il metro di Le Corbusier sono i famosi cinque principi dell’architettura moderna che aveva formulato nel 1923 in Vers un’architecture: pilotis, pianta libera, finestre a nastro continue, tetto piano a giardino, facciata libera. Tutto grazie all’applicazione del cemento armato. Un sistema economico e adatto a questa nuova visione, come certe soluzioni di Palladio, uomo però più tecnico di Le Corbusier, pronto a usare materiali umili, ma anche grandissimo ricercatore della bellezza. Da cui villa Capra, La Rotonda, nel vicentino, con le sue quattro facciate identiche, termine di paragone per Villa Savoye assieme al Partenone. Ma, paradossalmente, nel suo nitore razionale, Villa Savoye è l’architettura forse più prossima idealmente al testo eretico di Le Corbusier, la chiesa di Ronchamp, dove egli sembrò rinnegare tutto quello che aveva predicato prima dell’ultima guerra mondiale. Entrambi invece sono il distillato di quell’intuizione che Le Corbusier aveva riassunto negli «oggetti a reazione poetica». Casa-manifesto, casa-idea, casa-monumento per Le Corbusier essa, come scrivono i due autori del libro, diventò icona. Villa Savoye è la Stele di Rosetta del suo credo.
Dal 1963 al 1997 è stato tutto un susseguirsi di restauri, con cambiamenti e ripristini dell’interno. Il libro segue passo passo la vicenda: i tentativi di sfilare di mano a Le Corbusier la gestione del restauro dell’opera, le sue strategie per esaltarne la grandezza anche in forma di rovina (secondo quella 'sublime negligenza' cara agli antichi, che può persino insinuare il dubbio sulle capacità dell’autore, mentre invece è l’espressione della sua scala di valori): Villa Savoye deve essere una 'macchina per commuovere'. Così mi è capitato di scrivere altrove che la bellezza di Villa Savoye è simile a quella di un baluardo espugnato e sigillato nella sua disabitata vuotezza. È al tempo stesso la bianca cattedrale di Rodolfo il Glabro e l’erosione dell’antico nel presente come in certe visioni piranesiane: il bianco e il nero, il classico e il moderno, la ragione e lo spirito. Un tema molto francese, almeno da Cartesio in poi. Le Corbusier sa che deve confondere i pensieri dei suoi antagonisti, per portare la sua architettura a diventare monumento storico. Villa Savoye si sdoppia così nell’edificio e nella sua immagine parallela (che alla fine gioca il ruolo più importante). Testo e paratesto, scrivono gli autori del libro. È così determinato a creare il mito della sua creatura che sceglie lui anche le fotografie che accompagneranno gli articoli che pubblicizzano la villa: Le Corbu è il regista della sua edificazione iconografica, al punto che interviene sulle foto cancellando dettagli che lo infastidiscono, per restituire all’edificio una estetica più purista. Molteplici sono i temi che quest’architettura, la sua gestione postuma diciamo, pone secondo gli autori: la sua stessa immagine in rovina si fa testimonianza di una modernità a rischio e quindi da porre sotto tutela? Il primato della creazione sulla costruzione, del simbolo sulla pratica, affermato a un certo punto da Malraux. La prevalenza estetica dell’oggetto quando non è più luogo abitato e perde il suo valore di mercato, diventando sacro alla storia dell’uomo. Il 13 febbraio 1963 Le Corbusier scrive soddisfatto: la Villa Savoye è stata classificata monumento storico. Punto e a capo. Inizia in quel momento una nuova storia dell’edificio, ancora oggi da interpretare correttamente.