venerdì 29 novembre 2019
Un libro di Solinas accompagna il lettore in un singolare viaggio nel Belpaese attraverso quei campi di calcio che «non sono più tra noi» ma che sopravvivono nel mito e nella memoria dei tifosi
Folla in uno stadio inglese negli anni Trenta

Folla in uno stadio inglese negli anni Trenta

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Una domenica d’inverno passata a “giocare” con delle vecchie foto, in bianco e nero, che mostrano un’Italia che non c’è più, tipo quella della Nevicata del ’56 cantata dalla voce agrodolce di Mia Martini: «Le canzoni alla radio, le partite allo stadio, sulle spalle di mio padre...». La nostra generazione, quella dello scrivente e di Sandro Solinas - dottore in Economia e una laurea, davvero sul campo in “Storie di cuoio” - , autore del prezioso e documentatissimo Vecchi spalti (groupsstadiditalia. Pagine 254. Euro 22,00) è nata e cresciuta, o almeno ha sentito tramandare da padri e nonni, le storie di molti di quegli stadi che «non sono più tra noi». Spalti scomodi ma affascinanti, tribune scoperte, per il popolo, che, pur di seguire la squadra del cuore, accettava tacitamente il dazio della pioggia e la neve d’inverno e il tormento del solleone nelle calde giornate (torride da Roma in giù) di fine campionato. E poi il romantico senso dell’«attesa» del dì festa, quando il calcio era la pasoliniana messa laica, esclusivamente domenicale. Il calcio senza anticipi e posticipi, con “spezzatino”, non mediatico, ma pronto solo in tavola a mezzogiorno, in famiglia, prima della fuga per raggiungere gli spalti (il via era alle ore 14.30) e conquistarsi il posto migliore - vista campo - al rischio calcolato di non trovarlo.

Tutto questo era il calcio di poesia, meta finale del viaggio antropologico, da nord a sud, di Solinas, per rintracciare gli ultimi frammenti di pietra che è memoria di cuoio, ed è come «voltarsi l’ultima volta per cogliere ancora quel fascino del tempo». La magia ancestrale di «ieri», il Ranchibile di Palermo, il Filadelfia degli invincibili del Grande Torino. E ancora sopralluoghi su quel che resta dei vari Campo di Marte sparsi per l’infinita provincia italica, perché il calcio è prima di tutto sfida, simulazione della battaglia tra ventidue “soldati” schierati e contrapposti da due strateghi in panchina. Per questo nel Paese dei campanili proliferavano «le piazze d’armi, i campi del Littorio e i velodromi». Calcio e ciclismo fino alla metà del secolo scorso viaggiavamo alla stessa velocità, e nei medesimi impianti, dall’Ossola-Luigi Ganna di Varese al Carlo Zecchini di Grosseto. Nella città del grossetano Luciano Bianciardi, uno dei più irregolari delle patrie lettere del ’900, che si vantava, «in ogni mio romanzo metto sempre una partita di calcio» (imperdibile la sua antologia di scritti per il “Guerin Sportivo” Il fuorigioco mi sta antipatico), il calcio d’inizio venne fischiato allo stadio Amiata. Un simbolo misconosciuto, persino a molti cittadini del capoluogo maremmano.

Così come a Roma sono ormai rari i “reduci” dalle tribune di legno, «giallorosse», del Campo Testaccio: lo stadio (aperto dal 1929 al ’40) progettato dall’ingegner Silvio Sensi, padre di Franco (presidente del terzo scudetto romanista) che si ispirò alla tradizione degli impianti anglosassoni, in particolar modo al Godison Park di Liverpool, la tana (inaugurata nel 1892) dei cugini campioni d’Europa in carica dei “Reds”, l’Everton. Stadi mitici della capitale, come il Nazionale, vanto del Pnf di Mussolini che nel 1934 fu teatro del trionfo mondiale degli azzurri del tenente Pozzo, e dopo la sciagura aerea di Superga (4 maggio 1949), venne intitolato “Stadio Torino” in omaggio alle leggende granata. Nel 1953 il Nazionale fu dismesso, e quattro anni più tardi demolito per costruire, sulla stessa area, lo stadio Flaminio che nelle «Olimpiadi più umane» della storia dei Giochi (Roma 1960) fungeva da spalla di lusso del moderno - per i tempi - stadio Olimpico. Oggi il Flaminio è solo una delle tante piaghe di Roma, luogo triste solitario, dove, sotto le sue gradinate bivaccano e a volte muoiono, tra stenti e gelo della notte, i senza tetto.

Nella capitale morale, Milano, il 15 maggio 1910 avvenne il debuttò della Nazionale: all’Arena Civica l’Italia, in “bianco”, stracciò la Francia, 6-2. Oggi quei vecchi spalti meneghini, incastonati nel polmone verde del Parco Sempione, recano il nome del nostro massimo scriba sportivo, Gianni Brera. Un campo sportivo è, oltre che uno dei maggiori luoghi di aggregazione sociale, un punto di riferimento topografico e un avamposto culturale della città. Tale è stato lo stadio Sterlino di Bologna, alias «campo di giuoco di Villa Hercolani», palcoscenico dello squadrone rossoblù che il mondo faceva tremar. Sterlino deriva da Starlén che in dialetto bolognese indica il volatile “regolo cristato” e la zona pedecollinare della Dotta. Abbattuto esattamente cinquant’anni fa, al suo posto è subentrato il Centro Sportivo “Giulio Onesti”, ma questo, per chi del Bologna si intende rimane l’eterno e indimenticabile Sterlino.

Nell’era degli stadi-teatro (o salotti multimediali) ultramoderni, tutti uguali, dalla Norvegia fino al nuovo Maracanà di Rio, fanno sorridere e generano sana nostalgia, quelle istantanee conservate nello spogliatoio dei ricordi di certi piccoli vetusti luoghi dell’anima pallonara. Come il vecchio Romagnoli di Campobasso. Il campo d’assalto dei molisani, non a caso omaggio al valoroso medagliato della Grande Guerra Giovanni Romagnoli, in cui si consumò la storica impresa ai danni della “Vecchia Signora” del calcio. Il piccolo Campobasso di mister Mazzia, il 13 febbraio 1985 riuscì a battere la Juventus di Platini nella gara d’andata degli ottavi di Coppa Italia: 1-0, autogol di Pioli. Quello fu l’acme di una società sportiva e di un’intera regione che quel giorno portò un abitante su dieci (40 mila spettatori) sugli spalti di uno stadio appena “ricostruito” dal nobile patron dell’Ascoli Costantino Rozzi, e inaugurato per regalare l’ultimo momento di gloria.

Luci della ribalta sul campo di viale Brin, dove, molto prima di passare al Libero Liberati, si esibivano le Fere di Terni. E nella stagione 1932-’33 in quello stadio dalle suggestive tribune in ferro e dalla pista di atletica, il regista tedesco Walter Ruttmann - su soggetto scritto da Luigi Pirandello - , girò alcune scene del film Acciaio. Protagonista della controversa pellicola caldeggiata dalla propaganda mussoliniana (anche il club umbro prese il nome di Polisportiva Fascista Ternana) era il «centrattacco che piace a Hollywood», Piero Pastore. Il calciatore- divo (80 film in carriera), ex Juventus che alla domenica giocava con la Roma e durante la settimana figurava nel cast di Acciaio nei panni dell’operaio (Mario Velini) delle acciaierie di Terni. Ci sono spalti che soffiano venti di bufera sulle orecchie dei propri beniamini spingendoli alla vittoria e che al contempo fanno tremare le gambe degli avversari. Un effetto “Bombonera” (il tempio del Boca a Buenos Aires) sperimentato anche da Omar Sivori, era quello che sprigionava lo stadio Fratelli Ballarin di San Benedetto del Tronto, sintesi perfetta del clima da “sangue e arena”. Sul campo che è stata autentica fucina di talenti della porta degli anni ’70-’80 (qui hanno spiccato il volo n.1 come Tancredi, Tacconi e Zenga) la gladiatoria “Samba” sfiorò il paradiso della Serie A, ma visse anche l’inferno, il rogo scoppiato in Curva Sud con 13 feriti e due vittime. Il 7 giugno 1981 durante Sambenedettese-Matera (ultima giornata del torneo di serie C) per le gravi ustioni riportate in quell’incendio persero la vita due ragazze, la 23enne Maria Teresa Napoleoni e Carla Bisirri (21).

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