Lo scafo del Vasa, affondato nel 1628 e recuperato nel 1661, ricostruito e restauro nel Vasamuseet a Stoccolmae - WikiCommons
Nel tardo pomeriggio di domenica 10 agosto 1628 c’era ancora luce a Stoccolma, data la latitudine. Da ore una folla s’era assiepata attorno al punto di varo della nave che celebrava, col nome Vasa, la dinastia regnante in Svezia. Quattrocento anni fa, durante la più devastante guerra conosciuta dall’Europa prima del XX secolo, quella dei trent’anni (16181648, tra cattolici e protestanti, vessilli religiosi dietro i quali si agitavano motivazioni imperialistiche di vari Stati) questo regno non aveva, non poteva ancora avere, la connotazione di società civilmente avanzata e neutrale che oggi riferiamo alla Svezia, come ad altre socialdemocrazie nordiche. Era al contrario un potente regno guerresco, che scendeva in campo ingaggiato ora dall’uno ora dall’altro schieramento, per determinare le sorti delle varie fasi del conflitto. E il campo su cui bisognava far sfoggio di forza cominciava ad essere, almeno dimostrativamente, il mare.
Non c’erano in realtà grandi battaglie navali, ma sull’acqua andavano mostrati i muscoli, da quando le Province Unite d’Olanda, col navigare verso territori estremi e radicarsi commercialmente in essi (dall’America , con la Nieuw Amsterdam che sarebbe poi diventata New York, all’Africa, all’Oriente) erano divenute la più florida compagine d’Europa. L’Inghilterra, presa da grossi problemi di tenuta interna, nel lanciarsi sui mari cominciava a inseguire l’Olanda, che avrebbe poi eclissato; la Spagna dopo il siglo de oro era in bancarotta; gli Asburgo tentavano di puntellare il loro regno su cui non tramontava mai il sole; i principi tedeschi si scannavano senza posa tra loro; e la Francia di Luigi XIII, padre del futuro Re Sole, doveva confrontarsi con altre beghe ma già si avviava a perdere il ruolo, detenuto per secoli, di prima potenza d’Europa.
In questo scenario il re di Svezia Gustavo Adolfo II aveva commissionato la nave più grande del mondo, ultimata nel 1628, dopo due anni di costruzione. Aveva presentato subito crescenti problemi, che al re erano stati fatti presenti dai primi, capaci cantieristi e poi non più dai loro incapaci successori, proni alle volontà del sovrano il quale aveva fretta di celebrarsi col Vasa.
Era in realtà una sontuosa, pessima nave monstre, se per tale si intende qualcosa in grado di navigare e tanto più di combattere. Lunga 70 metri, alta di velatura fino a 52, rollava e s’inclinava anche nelle più compiacenti prove di stabilità, per cui si era tentato di renderla più stabile zavorrandola all’inverosimile, sebbene col suo peso di 1.200 tonnellate avesse un pescaggio già notevole. Si sperava che la tenesse ferma l’acqua in cui era per parecchi metri immersa; tutto per far oscillare meno i due ponti, i tre alberi equipaggiati a enormi vele quadre e quant’altro stava sopra, tra cui un torreggiante castello di prora; e a peggiorare la situazione, sulla nave erano state collocate moltissime - c’è chi dice duecento - statue in legno, in parte laminate in oro, a celebrare le virtù del casato Vasa, destinate dopo l’inaugurazione a essere smontate e trasferite a profusione su altri vascelli.
Carico come un carro allegorico, il Vasa scivolò dunque in acqua davanti alla corte e al popolo, ma solo per percorrere un brevissimo tratto di fronte alla costa. Un primo colpo di vento lo inclinò subito e solo un miracolo del timoniere poté raddrizzarlo. Un secondo colpo di vento lo rovesciò su un fianco e gli fu fatale. La nemesi storica antiguerresca si prese la sua vittoria perché furono i sessantaquattro pesanti cannoni a perderlo. Per estrofletterli a far mostra di sé, erano stati infatti spalancati i larghi portelli davanti alle bocche da fuoco: e attraverso questi l’acqua si riversò nella nave, poiché oltretutto i portelli erano stati incoscientemente abbassati verso la linea di galleggiamento dal ricarico di zavorra.
Tra gli ultimi raggi del tramonto il Vasa affondò in pochi minuti, depositandosi, nuovo di zecca, a trentanove metri di profondità. Gran parte del personale gettatosi in acqua si salvò, recuperato dalle barche radunate per la festa, o raggiungendo a nuoto la vicina riva; le stime parlano di soli (soli: si fa per dire) 40 morti, pochi dei quali intrappolati nel vascello, i più in quanto non in grado di nuotare. Gustavo Adolfo II aprì un’inchiesta e la chiuse subito, dovendo dare la colpa soprattutto a se stesso per essere di continuo intervenuto a impulsare la realizzazione d’una mostruosità incapace di navigare e candidata agli abissi.
Per oltre tre secoli il Vasa restò sul fondo, sino a quando nel 1959 venne varato, stavolta felicemente, un piano per recuperarlo, cosa che avvenne nel 1961. Il Vasa riportato in superficie (a differenza dell’irrecuperabile Titanic giacente a 4000 metri di profondità, altra vittima di un fatal varo) è oggi esposto nel frequentatissimo cantiere, trasformato in museo, dove è stato per anni restaurato e che rappresenta la maggiore attrazione turistica svedese.
I maligni dicono che lo hanno in gran parte ricostruito lì dentro, ma non è vero: il mare poco salino, il melmoso fondo quasi privo di ossigeno lo hanno avvolto in una miracolosa membrana protettiva. Così chi lo ha recuperato ha dovuto quasi solo rimontare le parti staccate e tirarlo a lucido, dopo avere tolto non pochi scheletri tra le statue un tempo dorate, i decori lignei, i cannoni, il vasellame e tutto il resto del delirio di potenza di cui era carico il Vasa; e di cui talvolta il mare, più dei campi di battaglia, conserva e restituisce memoria, quale monito del trascorrere d’ogni gloria dalla faccia del mondo.