La scrittrice statunitense di origini ucraine Sana Krasikov - Fazi
Nel 1931 George Bernard Shaw visitò l’Unione Sovietica su invito di Stalin. Il grande drammaturgo irlandese, che non aveva mai fatto mistero delle sue simpatie per il regime di Mosca, tornò da quel viaggio entusiasta e incitò i giovani occidentali a trasferirsi in Russia, dove avrebbero trovato – disse - «un futuro radioso». Ai tempi della Grande depressione non pochi gli avrebbero dato ascolto, abbandonando gli Usa per inseguire l’utopia socialista sovietica. È quello che fa anche Florence Fein, giovane protagonista di I patrioti (traduzione di Velia Februari, Fazi, pagine 790, euro 20,00), il poderoso romanzo d’esordio della scrittrice statunitense di origini ucraine Sana Krasikov che racconta le vicende di tre generazioni in bilico fra due continenti, intrappolate tra le forze della storia e le conseguenze delle proprie scelte. Florence decide di lasciare New York per trasferirsi nella terra d’origine della nonna, inseguendo il sogno socialista e la promessa di un amore oltreoceano. Si trasferisce a Magnitogorsk, sugli Urali, nota per la produzione dell’acciaio. Ma giunta a destinazione le sue speranze svaniranno e i sogni si tramuteranno in incubi. Presto si ritroverà intrappolata in Urss finendo per cadere vittima delle purghe staliniane, ma neanche il gulag intaccherà il suo idealismo. A rifiutarlo del tutto è invece suo figlio Julian, che molti anni dopo emigra di nuovo verso gli Usa. Gran parte della vita di sua madre gli è stata tenuta nascosta, e quando viene a sapere che esiste un fascicolo del Kgb su di lei, fa di tutto per scoprire la verità. Il libro è una saga multi-generazionale raccontata dagli opposti punti di vista di madre e figlio, che copre otto decenni di storia e recupera la memoria delle centinaia di cittadini statunitensi residenti in Urss che negli anni ’30 furono abbandonati dal loro governo e divennero vittime del terrore di Stalin. Ma è anche un romanzo storico che pone domande complesse sui temi dell’identità, della lealtà e della patria, esplorando le contraddizioni dell’idealismo, le divisioni innescate dalla propaganda e la capacità di vivere in realtà differenti. La stessa autrice è nata nel 1979 in Ucraina, è cresciuta nella Georgia sovietica e negli anni ’80 si è trasferita con la famiglia a New York dove vive. La rivista “Granta” l’ha inserita nella lista dei migliori giovani romanzieri americani e I patrioti è già stato tradotto in undici lingue e premiato in Francia come miglior romanzo straniero dell’anno.
Com’è nata la storia?
Non è una vicenda autobiografica. Un amico di famiglia mi raccontò su sua madre, una giovane donna brillante e coraggiosa che lasciò Brooklyn durante la Grande depressione per recarsi a Mosca, considerata “la Parigi degli anni ‘30”. All’epoca molti stranieri la ritenevano una città all’avanguardia anche sul piano economico. Ma si rivelò una fatale illusione. Il mio amico ha trascorso parte dell’infanzia negli orfanotrofi statali, prima di ricongiungersi con sua madre non appena fece ritorno da un gulag. Quel momento è diventato la prima scena del libro. La storia di quella donna mi affascinò fin da subito, perché è l’esatto opposto della mia. Lei aveva voltato le spalle agli Usa mentre io avevo abbracciato in pieno il sogno americano. Di capitolo in capitolo ho cercato quindi di far sì che il lettore si ponesse delle domande sulla sua vera identità. Florence era un’idealista ambiziosa che cercava di preservare la propria umanità in circostanze impossibili oppure un’illusa capace di tradire la fiducia di chi le voleva bene? Poi mi sono prefissa anche l’obiettivo di raccontare la Russia di Stalin dal punto di vista di un’americana che non condannò mai il sistema sovietico nonostante il dolore che causò alla sua famiglia.
Il romanzo esplora anche gli intricati legami tra Russia sovietica e Stati Uniti di quegli anni.
Sì, ho fatto approfondite ricerche storiche. Non sapevo, ad esempio, che sotto la superficie della “minaccia rossa” propagandata dall’informazione fosse esistita in realtà una forma segreta di collaborazione anche negli anni più duri della Guerra fredda. Vi furono contatti assai stretti, in alcuni casi addirittura forme di collusione. La Russia non sarebbe mai diventata una superpotenza senza l’aiuto economico degli Usa.
Cosa pensa della politica delle identità?
Non mi piace affatto. Per la verità conosco pochi artisti che la amano. Penso che le nostre anime siano assai più importanti delle nostre identità.
La protagonista aderisce a una definizione molto progressista di patriottismo. Ricalca il suo pensiero?
Il titolo è stato scelto dal mio editore americano. Non mi dispiace, ma forse ne avrei scelto un altro. Florence credeva in una nazione capace di mantenere certe promesse di uguaglianza e di inclusività e lascia il suo Paese per andare in Urss, illudendosi che là sia davvero possibile mantenerle. Di fatto, però, sono tutti infelici allo stesso modo e suo figlio Julian, nato in Urss, lo comprende molto chiaramente. La loro concezione di fedeltà allo stesso luogo è in realtà completamente diversa. Spesso le persone hanno idee molto diverse tra loro su cosa significhi essere un patriota.
La guerra in Ucraina ha influenzato il suo lavoro recente?
Senza dubbio. Questa estate ho pubblicato sul “New Yorker” il racconto The Muddle, storia di due donne amiche dall’infanzia che si ritrovano durante la guerra ma hanno posizioni differenti. L’Ucraina in cui sono cresciuta non esiste più, già da molto tempo prima di questa guerra, però il mio cuore sanguina per quello che sta accadendo. Il primo mese dopo l’inizio dell’invasione non sono riuscita a chiudere occhio. Ricevevo continuamente notizie dagli amici sia in Ucraina che in Russia. Temo che ci vorranno generazioni per ricucire le relazioni tra russi e ucraini.