La sede centrale dell'Unesco a Parigi - WikiCommons
Sono trascorsi cinquanta anni dalla emanazione della Convenzione Unesco sul patrimonio universale, forse la più conosciuta e popolare carta internazionale che riguardi la tutela e la valorizzazione dei beni culturali e del paesaggio. La ricorrenza costituisce una necessaria occasione di confronto sul senso della universalità dei patrimoni: usiamo consapevolmente il plurale, per evidenziare da subito che la questione della molteplicità è quella che maggiormente interessa il dibattito in corso. La Convenzione, firmata a Parigi nel 1972, ha segnato un punto di svolta nella storia della cooperazione internazionale in tema di patrimonio, stabilendo di fatto un codice etico planetario nei riguardi dei beni culturali e dell’ambiente. Lo spirito che anima la Convenzione trova le sue radici già nel periodo tra le due guerre, ma è con il desiderio di conciliazione che segue il secondo conflitto mondiale che essa incontra un terreno fecondo, profilandosi quale espressione della missione di pace assunta dalle Nazioni Unite e dall’Unesco. A partire dagli anni ’50, una serie di eventi contribuì a favorire la nascita di una nuova consapevolezza verso il valore di un patrimonio collettivo, sovranazionale, una sorta di spazio comune di riferimento, capace di superare particolarismi e interessi locali. I casi eclatanti della salvaguardia dei monumenti del sito egiziano di Abu Simbel, del complesso buddista di Borobodur in Indonesia e della commovente operazione di salvataggio delle opere travolte dalle alluvioni che colpirono l’Italia nel 1966 crearono le premesse per la stesura della Convenzione. Proprio in quegli anni, la concezione di patrimonio si andava allineando all’affermazione di una nuova cultura dell’ambiente, quale contesto di vita che direttamente investe il senso identitario degli individui e delle comunità. La Carta di Parigi mantiene ancora oggi una enorme importanza, anche di natura giuridica, proprio per questa attenzione verso l’equilibrio tra contesto naturale e fattore antropico, il cui mantenimento viene affidato alle nazioni attraverso precisi obblighi di tutela e valorizzazione. Ma è soprattutto nell’introduzione del concetto di “universalità” del patrimonio che la Convenzione compie un passo epocale: il documento definisce con precisione condizioni e proprietà di quei monumenti, beni, siti che possono rientrare in una speciale categoria ritenuta identitaria per l’intera umanità. Si tratta del ben noto principio di “eccezionale valore universale” cui si aggiungono i caratteri di autenticità e di integrità, rispetto ai quali spesso si è dibattuto per via del controverso concetto di originalità del bene, nel quale anche le trasformazioni apportate nel tempo dovrebbero godere di opportuna considerazione e salvaguardia. Basti pensare ai casi eclatanti di monumenti di alcuni paesi dell’estremo oriente, soggetti a continui interventi di adeguamento, ma che legano il loro significato a riti e credenze ancestrali. È il caso del tempio shintoista di Ise, in Giappone, che da più di mille anni viene periodicamente abbattuto e ricostruito nella sua forma originaria. L’universalità del patrimonio - che di per sé assume un valore unificante e assoluto, tale da riunire tutti i popoli verso un comune desiderio di riconoscimento e di coesione, intorno al godimento della bellezza, della rappresentatività, della memoria condivisa - stabilisce al contempo un principio di selezione e di esclusione verso gli “altri patrimoni”, e favorisce un processo di semplificazione della complessità che domina il sentimento dell’appartenenza culturale. In questo senso il perno che sostanzia la Convenzione meriterebbe una riflessione che tenga in considerazione il sempre più esteso orizzonte della pluralità e le prerogative di partecipazione dei cittadini ai processi di costruzione e di valorizzazione dei fenomeni culturali. Non secondario, in tale ragionamento, è il problema dell’individuazione dei siti tutelati dalla Carta: la distribuzione geografica dei luoghi e dei beni riconosciuti come patrimonio universale appare squilibrata, con un netto dominio dell’area europea e mediorientale (e con una altrettanto evidente prevalenza di “siti a rischio” nelle regioni africane e sud americane). Se a questo si aggiungono i fortissimi risvolti economici derivanti dall’approvazione delle candidature Unesco, il quadro generale assume i tratti di un terreno carico di criticità. Gli effetti mediatici che accompagnano la certificazione dei siti, oltretutto, comportano spesso conseguenze di sovraffollamento e di inevitabile compromissione dei principi di tutela e di sostenibilità che si dovrebbero perseguire. Una sorta di boomerang, dunque, che finisce con l’incoraggiare comportamenti incompatibili con la fragilità dei luoghi e che disinnesca quel processo di sensibilizzazione verso pratiche di cittadinanza consapevole che la Carta dovrebbe perseguire. Andrebbe considerato come il principio di universalità necessiti, oggi più che mai, di un autentico impegno di revisione politica e culturale. Proprio rispetto alla questione del patrimonio, gli ultimi anni hanno visto un sempre più vigoroso fenomeno di rivendicazione dei beni sottratti ai popoli caduti vittime di politiche coloniali; l’argomentazione che è stata sollevata da molti dei grandi musei coinvolti è stata proprio la difesa incondizionata di una presunta “universalità” delle collezioni, intese come aggregazioni immodificabili, che vantano una ricchezza ed una unicità poste a vantaggio dell’intera umanità. La Dichiarazione sull’importanza e sul valore dei musei universali, firmata nel 2002 da diciotto musei occidentali, ripropone di fatto le stesse argomentazioni con le quali il direttore del Louvre Vivant Denon, dopo la caduta di Napoleone, tentava di salvare il bottino di opere requisite dall’esercito francese durante le recenti campagne di conquista. Nel multiforme e vivacissimo scenario geopolitico che oggi configura il patrimonio mondiale, con la miriade di piccole e grandi comunità, di storie e di interpretazioni, di memorie sepolte che ancora attendono di essere rivelate, diviene importante confrontarsi sul concetto di universalità delle risorse culturali, valutandone i possibili anacronismi. Cruciale appare in tale contesto il ruolo di mediazione dei musei, che dovrebbero sempre di più agire come moltiplicatori delle identità, amplificando le voci delle tante periferie del mondo, fino a comporre un mosaico leggibile dell’universo dei patrimoni.
A Roma la giornata di studi di Italia Nostra
Ad approfondire questi temi sarà, domani 11 novembre, la giornata di studi "La convenzione di Parigi. Prospettive sul patrimonio tra universalità e territori", che si terrà a Roma all'Ex Cartiera Latina; promossa da Italia Nostra, vedrà la partecipazione di Antonella Caroli, Mario Tozzi, Simone Quilici, Angela Maria Ferroni, Annalisa Cipriani, Pina Cutolo, Anna Di Gregorio, Francesco Paolo Cunsolo, Elisa Baroncini, Alessandro Beltrami, Paolo Conti, Massimo Osanna, Elena Calandra, Marica Mercalli, Giuliano Volpe, Patrizia Di Mambro, Irene Baldriga, Alessandro Saggioro, Massimo Bottini, Luigi De Falco. (R.A.)