Il campione di football americano Benjamin Watson
Il campionato di football americano (Nfl) 2018-2019 è andato ormai in archivio, ma c’è un giocatore che continua a far parlare di sé. Perché quando c’è da difendere i più deboli il leggendario Benjamin Watson è sempre in campo. E così, negli Stati Uniti dove ferve il dibattito sul cosiddetto “aborto tardivo” si è levata ancora una volta, forte e controcorrente, la sua voce. Quando infatti i parlamentari dello Stato di New York hanno applaudito con gioia all’approvazione della legge che permette di strappare un bambino dal ventre della mamma anche pochi istanti prima della nascita, Watson ha tuonato: «È un giorno triste e malvagio quando l’omicidio del più innocente e vulnerabile tra gli uomini viene celebrato con una tale esuberanza. Noi dovremmo sostenere e incoraggiare la costruzione di famiglie che sono fondamentali per qualsiasi società. Non facendolo avalliamo invece le conseguenze non dette del mancato sostegno alla vita». Parliamo di una battaglia che da anni sta a cuore al fuoriclasse di Norfolk, in Virginia, una vera celebrità dello sport a stelle e strisce, ma soprattutto un uomo per cui la vita è sempre stata più grande di un campo di football.
A 38 anni il campione ha detto basta e ha chiuso la sua gloriosa carriera quest’anno con la maglia dei New Orleans Saints. Ma il suo impegno in favore degli ultimi non finisce certo qui. Lui che si è battuto contro le discriminazioni razziali subìte dalla sua gente non ha avuto esitazione nel criticare aspramente Planned Parenthood, la potente rete che gestisce la principale catena di cliniche abortiste degli Stati Uniti: «So che le vittime più numerose dell’aborto sono i bambini neri e so che Planned Parenthood e la sua fondatrice, Margaret Sanger, avevano lo scopo preciso di sterminare i neri ». Per poi aggiungere: «E il bello è che si sta realizzando». È il sarcasmo di chi conosce bene la situazione: su una popolazione statunitense in cui gli afroamericani sono circa il 13%, il 30% dei bambini uccisi dall’aborto sono neri. I tassi di aborto tra le adolescenti afro-americane sono più del doppio rispetto alla media nazionale (sono dati del 2017, peraltro del Guttmacher Institute, ente che dipende dalla Planned Parenthood).
Watson, marito e padre di cinque figli (con altri due in arrivo) è tornato di recente ad appellarsi ai maschi perché siano davvero uomini: «Tante donne non avrebbero abortito se gli uomini si prendessero la responsabilità che biologicamente hanno». Racconta di come ha convinto anche un suo compagno di squadra a non cedere all’aborto. E senza nessun timore di andare contro il pensiero dominante ribadisce come coloro che giustamente combattono le discriminazioni, se fossero coerenti, dovrebbero battersi a testa alta contro l’aborto legale, un abominio che coinvolge bambini innocenti neri ma anche quelli poveri o ritenuti imperfetti. Così come continua a denunciare gli interessi economici di chi spinge ad abortire, pur ricevendo ogni giorno commenti feroci e minacce sui social. Ma ci vuole ben altro per spaventare questo gigante, con i suoi 191 centimetri di muscoli e saggezza.
«Non possiamo più tacere» disse due anni fa alla Marcia nazionale per la vita, spiegando che essere pro life significa difendere l’uomo dal concepimento alla tomba. E che “alzarsi in piedi per la vita” significa anche prendersi cura delle vittime della tratta sessuale e degli abusi, degli affamati e dei disagiati. Per la star della Nfl l’unico modo per risolvere veramente questioni sociali complesse è far riferimento al Vangelo. Ha sempre manifestato pubblicamente la sua fede, cristiana evangelica, e attraverso di essa oggi rilegge anche l’ultimo anno di carriera, con l’amarezza di non essere riuscito a vincere un altro SuperBowl (dopo quello vinto con i Patriots nel 2004), sconfitto con i suoi Saints in semifinale perché bloccato anche da diversi problemi fisici: «Non volevo finisse così ma molte cose nella vita non vanno come tu vuoi. L’esperienza del dolore tocca tutti, ma il cristiano può piangere con speranza. Abbiamo una prospettiva eterna, anche se a volte ce ne dimentichiamo».
Una fede testimoniata anche ai compagni di squadra e condivisa con sua moglie Kirsten. È questa comune spiritualità a ispirare le loro tante opere di solidarietà. Una di queste è quella di donare alle cliniche per la gravidanza dei macchinari all’avanguardia per sensibilizzare le madri a far nascere i piccoli che portano in grembo: «Vedere la vita dentro l’utero non solo afferma la sua bellezza e dignità, ma incoraggia la madre e il padre che vale la pena combattere per il loro bambino ». Un’iniziativa che ha riguardato tutte le città in cui Ben Watson ha giocato per poi estendersi a molti Stati degli Usa. È il progetto chiamato “Salmo 139”, dal componimento biblico in cui Davide canta le lodi di Dio per essersi preso cura di lui quando ancora non era nato: «Sei tu che mi hai tessuto nel grembo di mia madre». Watson è oggi un papà felice che non è riuscito a trattenere la sua euforia nemmeno in campo. Lo scorso novembre dopo aver segnato un touchdown( una meta) ha voluto annunciare a tutti che sua moglie era incinta di due gemelli: ha messo dunque la palla sotto la maglietta e ha alzato cinque dita su una mano e poi altre due. Aveva festeggiato in questo modo anche nel 2008 per celebrare l’arrivo della sua prima figlia. E nonostante sia stato multato lo rifarebbe ancora.
Dopo 15 anni di Nfl, con le maglie dei New England Patriots, Cleveland Browns e Baltimore Ravens e infine dei New Orleans Saints, è ben contento ora di godersi di più la sua famiglia. Magari troverà anche il tempo per un nuovo libro, dopo quello che scrisse tre anni fa, durante uno stop per infortunio, per incoraggiare gli uomini che stanno diventando papà a prepararsi al più grande gioco della vita. Negli ultimi giorni si susseguono le indiscrezioni secondo cui le emittenti televisive starebbero pensando di assumerlo come commentatore della Nfl. Per la sua autorevolezza ma anche per la capacità di offrire riflessioni che vanno oltre lo sport. Ben sapendo che la sua è una voce scomoda, ma di cui oggi l’America non può e non vuole farne a meno.