R. Hubert “Capriccio con il Pantheon e il Porto di Ripetta”, 1761 - Lichenstein Collections
Non ci sarebbe turismo se prima non fosse esistito il Grand Tour. Viaggiato si è sempre viaggiato. Ma prima si muoveva verso terre più o meno lontane per accrescere i propri guadagni o i meriti agli occhi del Signore, per questioni professionali, per migliorare la propria formazione, per uccidere altri uomini in guerra. Mai si era viaggiato per il gusto di viaggiare. Certo, la nobiltà, la ricca borghesia, la pletora di artisti che varcava le Alpi per visitare il paese dove fioriscono i limoni aveva motivazioni dotte: accrescere la propria cultura alle fonti della tradizione classica, rinnovata poi dai maestri del Cinquecento. Ma nei resoconti e nelle immagini che ci restano è chiaro che un ingrediente essenziale era l’ebbrezza del vivere. All’epopea del Gran Tour la sede milanese delle Gallerie d’Italia dedica una mostra ("Grand Tour. Sogno d’Italia da Venezia a Pompei"; fino al 27 marzo), come ormai da tradizione di estremo interesse, a cura di Fernando Mazzocca con Stefano Grandesso e Francesco Leone, da leggere in palinsesto con quelle su Canaletto-Bellotto e Canova-Thorvaldsen. In queste il tema dei viaggiatori stranieri e della destinazione europea delle opere era ovviamente ben presente, ma spostato su un piano di contesto. Qui il sistema in cui quegli artisti si muovevano diviene il protagonista. L’interesse contemporaneo verso il Grand Tour non è soltanto storico o nel fatto che abbia generato il turismo, la cui dimensione massificata e globalizzata è un prodotto sulla lunga distanza, più che del viaggio di formazione settecentesco, della sua evoluzione ottocentesca in viaggio sentimentale. Forse il motivo principale sta nel fatto che il Grand Tour abbia fissato l’immagine canonica dell’Italia, del suo paesaggio e del suo patrimonio culturale. E che l’abbia fissata non solo nell’immaginario occidentale ma, soprattutto, in quello degli stessi italiani. Il Grand Tour è stato un fenomeno culturale che ha avuto l’Italia come campo degli eventi ma con un meccanismo propulsore esterno. È stato una proiezione, un desiderio: un “sogno”, come dice il sottotitolo della mostra. La causa prima del grande viaggio è stato l’antico. Lo studio dei resti dell’antichità, che prima coinvolgeva un ristretto gruppo di umanisti e di artisti, per ragioni professionali, e quindi di aristocratici, che accumulavano in una sintesi inestricabile fervore culturale e coscienza politica dell’immagine, ora diventa passione per le rovine, generando un fenomeno che, fatte le debite proporzioni, potremmo definire di massa. Firenze, Roma, Napoli, Venezia sono le capitali del Grand Tour, e non a caso coincidono tuttora con la geografia del turismo culturale italiano. Le opere in mostra – che restituiscono un tassello importante della storia dell’arte, costellata di artisti eccellenti, altrimenti difficile da intercettare perché assente dai manuali o diluita nelle sale più neglette dei musei – sono costituite spesso da vedute idilliache o crepuscolari di una terra opulenta e ipnotica, abitata da pastori tasseschi e da maschere, costellata di rovine. Solo in Venezia sembra resistere una qualche misura di contemporaneità: ma è un’illusione, e i viaggiatori più attenti se ne accorgono. Come scrive Chateaubriand, Venezia appare ormai simile «a una bella donna che sta per venir meno con la luce del giorno». La singolarità veneziana però è confermata dal fatto che il ritratto della città è affidato quasi esclusivamente a vedutisti locali, mentre altrove presenza e contributo degli artisti stranieri, che siano membri delle carovane nobiliari o viaggiatori autonomi, non sono solo cospicui: sono fondamentali. Sono infatti soprattutto questi a realizzare una pittura sperimentale capace di restituire anche con soluzioni ardite la configurazione territoriale e urbanistica della penisola. Il capitolo della mostra dedicato alla genesi del paesaggismo moder- no sul suolo italiano da parte di autori francesi, tedeschi e inglesi è tra i più interessanti. E in un certo senso contraddice uno degli assunti teorici della mostra, ossia il superamento del pregiudizio per il quale la seconda metà del Settecento sia stato un momento di stagnazione dell’arte italiana. Un pregiudizio però tutto sommato non infondato. Per quanto non manchino, come ricordano i curatori nel catalogo (Gallerie d’Italia/Skira), giganti come Tiepolo, Canaletto, Bellotto, Piranesi, il giovane Canova, è altrove, e ormai da decenni, che si va elaborando un’arte che è difficile non definire “moderna”, mentre in Italia si ruminano per lo più modelli stabiliti. Al di fuori di Venezia e della Roma berniniana, in generale non è il passato recente dell’Italia a interessare i tourists. In fondo il Grand Tour è la storia di un incantamento: «Dappertutto emergono le macerie della storia, tutto tace come sotto la forza di un incantesimo» appunta Ferdinand Gregorovius. Il fatto è che in Italia agli occhi dei viaggiatori stranieri l’antichità ruinando si è fatta paesaggio. Decomponendosi ha fecondato la natura, tanto quella ambientale quanto quello umana. Si trova quel che si cerca. Il popolo stesso è una delle attrazioni del viaggio. Vi si riconoscono una bellezza innata e costumi incorrotti legati al ciclo della natura e a tradizioni ancestrali. L’Italia, con il suo cattolicesimo dai tratti pagani (è forte la componente protestante tra i viaggiatori) è una terra magica e insieme un fossile vivente. Il popolo di Roma e della sua campagna è mitizzato perché considerato l’erede diretto degli antichi. Le ragazze hanno i profili della Artemide Efesia che apre la mostra. Nasce una vera e propria pittura di genere che ambisce a rivaleggiare con la maniera grande della pittura di storia che allo stesso tempo è una produzione da leggere come controparte della pittura di rovine e monumenti. Per questo probabilmente è il capriccio il genere chiave per capire quanto, tra mito e realtà, si muove attorno al Grand Tour. Il capriccio infatti consente l’assemblaggio di una realtà fittizia, un condensato di quanto ci si aspetta dall’Italia. In questo senso pittori della penisola (come Canaletto e Panini) e stranieri si muovono all’unisono, rispondendo al desiderio della committenza. I capricci e le vedute ideate con rovine rimandano a una età dell’oro con però un senso di malinconia che ne costituisce il tratto più “contemporaneo”. L’antichità vista da questi uomini è una mitica terra di giganti. L’iconografia con i viaggiatori che vanno a visitare gli scavi dell’antichità, grandi grotte popolate di sculture misteriose, sembra essere un modello per la fantascienza in cui esploratori di pianeti sconosciuti si imbattono nelle testimonianze colossali di civiltà perdute. È indifferente che siano artisti d’Oltralpe o il veneziano Piranesi: tutto è sovradimensionato (persino le eruzioni del Vesuvio, spettacolarmente bombastiche), tutto è immane. E tutto è rovina. C’è un senso di inadeguatezza, rispetto al giganteggiare del passato. Cosa che né quello che chiamiamo Medioevo (perché si sentiva in perfetta continuità) né quello che chiamiamo Rinascimento (perché ambiva a rivaleggiare) avevano nei confronti dell’antico. La cultura di fine Settecento e di primo Ottocento sotto l’aspetto mimetico sente bruciare il grano di sale della distanza e della irreparabilità. Un’eredità scomoda: i sogni di restaurazione novecenteschi avrebbero prodotto i totalitarismi. Ci si può chiedere in conclusione, per restare su un tema di particolare attualità, se sia possibile riconoscere nei grand touristesuno sguardo coloniale o protocoloniale. L’epoca coincide con l’avvio moderno del fenomeno e la percezione esotica dell’Italia presenta affinità con quanto accadrà di lì a breve con il vicino Oriente. La massa di opere d’arte che in quegli anni prende la strada per l’estero (razziate o vendute) potrebbe esserne un ulteriore indizio.