martedì 4 agosto 2015
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Le nuove reclute, nelle loro divise sgargianti, giurano solennemente in Vaticano il 6 maggio di ogni anno. La data ricorda un episodio tragico di storia, simbolo oggi di fedeltà e dovere: in quel giorno del 1527 furono 147 le guardie svizzere che perirono durante il Sacco di Roma. Tutto è cambiato da allora, nel mondo e nelle aspettative di questi giovani militari che prestano il loro servizio al Papa e alla Chiesa. Con L’esercito più piccolo del mondo  di Gianfranco Pannone la Santa Sede sarà per la prima volta alla Mostra del Cinema veneziana, un documentario prodotto dal Centro televisivo vaticano e voluto da mons. Dario E. Viganò, attuale Prefetto della Segreteria per la Comunicazione. «Sono stato contattato da lui – racconta il regista – per un progetto che avrei dovuto fare sulla Chiesa cattolica e come si rapporta alla contemporaneità. Poi improvvisamente mi è arrivata la proposta di un film sulla Guardia Svizzera. Ero timoroso, poteva essere l’ennesimo film classico, ossia la storia di questo speciale corpo militare. È diventato, invece, una sorta di dietro le quinte di una istituzione più che centenaria che molti non conoscono affatto o della quale se ne ha un’idea stereotipata, che si confonde nei colori sgargianti della divisa». Naturalmente i timori iniziali erano di trovare qualche riluttanza, dopo tutto era la prima volta che una troupe entrava nella caserma in Vaticano. «Ho trovato una grande apertura nei superiori e nelle guardie. Sono rimasto sorpreso, forse anch’io soffrivo di un pregiudizio. Ma ho percepito da subito come questa attitudine positiva sia fortemente influenzata dalla presenza di Papa Francesco, una figura importantissima che in qualche modo compare sempre sullo sfondo del film, tanto da determinare anche la soluzione di alcuni dubbi di uno dei nostri testimoni, René, una guardia svizzera laureanda in teologia, al quale non è chiaro il suo ruolo di soldato, oltretutto vestito in un abito disegnato oltre 500 anni fa. Troverà il significato del suo compito nella libertà interiore del suo essere cristiano». Tutte le reclute sono state selezionate – verificando anche la loro attitudine davanti alla telecamera –, dopo veri e propri provini sotto la supervisione dei loro superiori, del regista e del personale tecnico responsabile delle riprese. Cesare Cuppone è stato l’operatore alla macchina, dal 1988 segue e riprende i Papi nei loro appartamenti, nelle udienze, nei viaggi. «Abbiamo cominciato a lavorare un anno fa in Svizzera, seguendo i ragazzi dai loro paesi di origine fino alla caserma del Vaticano. L’approccio che abbiamo avuto è caratterizzato dalla stessa sensibilità e attenzione che poniamo quando riprendiamo il Papa. Un atteggiamento presente ma riservato e di assoluto rispetto per i luoghi, perché giriamo sempre in contesti molto particolari. La fiducia è stata alla base del nostro lavoro. Trovo poi importantissimo che si continui a avere uno scambio con l’esterno e contatti con il mondo del cinema, perché questo confronto arricchisce l’attività ordinaria della televisione vaticana». Nel film più che la storia e la tradizione che circondano la Guardia Svizzera, è la vita quotidiana di questi ragazzi a essere raccontata. «In particolare di Leo, un guardiaboschi, René, giovane intellettuale, Michele, svizzero di origine lucana e Marco, un ticinese, di cui seguo l’apprendistato fino a che non giurano fedeltà al Papa e alla Chiesa, diventando effettivamente guardie svizzere. Ho puntato molto su un aspetto che secondo me è anch’esso fortemente legato a questo papato: l’umanità, cioè non raccontare i soldati, ma persone di fede che cercano in qualche modo di collocarsi nel mondo. Quindi li ho ripresi nella loro normalità: ci sono le passeggiate, le chiacchierate, le confidenze, i dubbi. Non è un film celebrativo, ma uno sguardo ad altezza d’uomo, con la vita di camerata, la mensa, le passeggiate per Roma. Però è anche l’entusiasmo di poter correre dentro i giardini vaticani piuttosto che chiacchierare sull’emozione di fare la guardia al Papa durante la notte a Santa Marta, a cinque metri dalla sua stanza. Mi si è aperto un mondo. Da credente, che però difende fortemente la propria dimensione laica, per me è stata una grande scoperta e una straordinaria esperienza».
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