Guarda la fotografia: si vede un difensore della Roma, Maurizio Turone, che anticipa il suo compagno - il brasiliano Falcao - e in semi-tuffo d’angelo su cross di Bruno Conti insacca di testa... Zoff è battuto, vede la palla finire in rete davanti a un esterrefatto Gentile, mentre Pruzzo è in estasi, come se fosse suo quel gol... Fermo immagine della più contestata delle sfide-scudetto, Juventus-Roma del 10 maggio 1981. Risultato finale: 0-0. Il gol di Turone venne annullato dall’arbitro Bergamo su indicazione del fido assistente, il guardalinee Sancini, e per i giallorossi addio sogni di gloria.Il tricolore, quell’anno se lo cucì al petto la Vecchia Signora e quel difensore romanista è passato, ingiustamente, alla storia del calcio italiano per il gol “fantasma” dello scudetto negato. «Quando ho segnato quel gol, che sottolineo per la millesima volta, era straregolare, avevo 32 anni e alle spalle una carriera di tutto rispetto che purtroppo a tanti è sfuggita...». È il racconto di Turone, un distinto signore dai capelli quasi lunghi come quando giocava, diventati candidi e che accentuano ancora di più il contrasto con la pelle olivastra, da sospetto indio, che gli fece tributare l’appellativo di “Ramon”.Ma non era un argentino del barrio il Maurizio da Varazze, vittima fin dagli esordi delle sviste. «All’ufficio anagrafe del comune, l’impiegato mi aveva ribattezzato “Turrone” e ho dovuto lottare per farmi togliere quella “r” di troppo che adesso non portano più neanche i miei due figli». Alessandro e Cristiano Turone, figli d’arte «con il calcio sono arrivati al professionismo», e che gli hanno regalato tre nipotini, «tutti maschi, Filippo Tommaso e Nicolò, e tutti giocano già a pallone, mentre io ora mi alleno nel ruolo di “nonno a tempo pieno”». Così alla vigilia di questo Juventus-Roma, ennesimo scontro scudetto, “nonno Maurizio”, decide di riaprire l’album dei ricordi, ma partendo almeno per una volta dagli inizi prima di arrivare a quella foto del maggio ’81.«Ho cominciato qui a Varazze nel campetto dell’oratorio Don Bosco. Primo mister Craviotto detto “Monzeglio”. Partite dalla mattina alla sera sotto gli occhi vigili di don Gigi. Poi, un giorno sono arrivati quelli del Genoa e mi hanno portato via...». Nelle giovanili del Grifone esplode da mezzala, poi retrocede dietro alla linea dei difensori e nel maggio sessantottino è titolare in Serie B inaugurando la gloriosa epopea del “libero offensivo”. «Mi ispiravo al mio idolo Franz Beckenbauer, libero con facoltà di sganciarsi per andare all’attacco». Un atteggiamento tattico incentivato passando nel ’72 al Milan, prima sotto la guida di Nereo Rocco, poi del suo «grande maestro», Nils Liedholm. «Due personaggi straordinari Rocco e Liedholm di quelli che nascono una volta ogni cinquant’anni. Così come Gianni Rivera, per me rimane il più grande giocatore italiano di sempre. Al Milan, nessuno lo dice, ma ho aperto la strada al giovanissimo Franco Baresi che dopo di me sarebbe diventato il nostro “libero offensivo” più celebrato». Anche il “kaiser” Baresi, più giovane di Turone di 12 anni, portava la maglia fuori dai calzoncini. Quel vezzo, originale per l’epoca («Platini sarebbe arrivato dopo»), lo aveva copiato dal “vecchio” Ramon che in rossonero dopo aver vinto due Coppe Italia e una Coppa delle Coppe nell’estate del ’78, l’anno del Mundial d’Argentina, si ritrovò a ricominciare da Catanzaro. «Una storia strana... Comunque a Catanzaro con Carletto Mazzone mi diverto, gioco in coppia con Claudio Ranieri e alla fine del campionato ci piazziamo al 9° posto. Un successone». Il Milan però, quella stagione 1978-’79 vinse lo scudetto senza di lui. E forse anche per riparare al “torto” fatto, l’anno dopo il “Barone” Liedholm lo volle con sé nella capitale per la costruzione della “magica” Roma. «Un’altra cosa che forse è sfuggita a tutti quegli “espertoni” insopportabili delle tv - dove mi invitano, ma non vado mai -, è che la Roma di Liedholm trent’anni fa faceva già lo stesso gioco del Barcellona di Guardiola. Non avevamo Messi e tutti i campioni milionari del club catalano, ma ce la giocavamo alla pari con la Juventus perché in quel gruppo c’era Falcao che è stato un giocatore davvero “divino” e il mio amico Bruno Conti, un fuoriclasse la cui immensa grandezza forse l’hanno capita meglio i brasiliani che qui da noi...». Conti se lo ricordano ancora come il mattatore sulla fascia destra di quell’epico Italia-Brasile 3-2 al Mundial vinto dagli azzurri a Spagna ’82. Un anno prima di questa foto del Comunale di Torino, gremito fino all’orlo (480 milioni di lire, incasso-record per l’epoca) in cui si consumò il “caso Turone”. «È un tormentone che non finirà mai: per noi della Roma e per il 99% delle moviole è un gol sacrosanto da convalidare, per quelli della Juventus assolutamente no, c’era fuorigioco». Per il presidente della Roma di allora, il senatore Dino Viola quello scudetto dell’81 fu solo «una questione di centimetri». Così, il suo collega juventino Giampiero Boniperti gli fece recapitare un righello «per misurarli meglio». La replica di Viola: «Grazie, ma quello è uno strumento più adatto a lei Boniperti che è un geometra che a me che sono un ingegnere». Sorride Turone che ricorda bene quella divertente diatriba dialettica («il calcio una volta era pieno di persone intelligenti», dice) chiusa dall’Avvocato con un’altra rasoiata di tagliente ironia: «Voi a Roma avete il Papa, Andreotti, il sole, lasciateci almeno lo scudetto assieme alla cassa integrazione...». Scenari per niente lontani dallo stato di crisi economica permanente di un Paese che almeno questa sera, per 90 minuti, può non pensare ai tanti problemi che ha sintonizzandosi su Juve-Roma.«La Roma di Garcia ricorda un po’ la mia, grande possesso palla e accelerazioni che posso assicurare facevamo anche noi, a dispetto di chi dice che si giocava un calcio più lento. La Juventus è più forte, ma qualche “aiutino”, io lo dico da molto prima di Totti, ce l’hanno sempre avuto. Però è anche vero che vincere è nel dna bianconero e quando uno indossa quella maglia diventa più forte e inevitabilmente anche più antipatico».Un rischio che ha corso anche il giovane Turone. «Questa è una cosa che sanno in pochi, ma quando ero al Genoa Boniperti venne personalmente a trattare il mio acquisto. Poi la società quell’estate aveva bisogno di fare cassa in fretta e il Milan fu più rapido a chiudere la trattativa». Ma non è questo il suo rimpianto. «Non lo è più neanche il gol annullato, perché poi la Roma lo scudetto l’anno dopo lo vinse e anche se pure quella volta me ne ero andato un attimo prima (ceduto a novembre al Bologna), Falcao disse pubblicamente: “Questo è anche il tricolore di Turone”». Generosità del vero campione che non dimentica. Così come la memoria del popolo giallorosso non cancella nessuno dei suoi piccoli eroi esemplari. Mentre i padroni del pallone, purtroppo a volte lo fanno, come è stato per Agostino Di Bartolomei. «Agostino era nato per fare l’educatore dei giovani, figura che oggi manca tanto nel nostro calcio e infatti in campo, specie tra i difensori, si vedono dei disastri... L’abbandono subìto da Di Bartolomei è stata una vergogna. Però i tifosi lo ameranno per sempre, ed è per questa gente che vorrei tanto che la Roma vincesse quello scudetto che a me è stato negato».