Frontiere chiuse, dopo la Corea. Per la serie: provincialismo all’italiana. Campionato più povero, nazionale non più ricca. Limite agli extracomunitari, stavolta. Per uno che esce di scena, un altro che può fare il suo ingresso. Non più due, come una volta. Incassata la delusione, trovata la formula. Sempre all’italiana, naturalmente. I tempi cambiano, non i modi. Meglio riflettere bene, quando c’è da cambiare. Stranieri, forse un problema, ma solo a metà. Il nocciolo della questione è un altro. Perché se conta il numero, c’è chi è messo peggio. Piuttosto è la distribuzione a preoccupare. Da noi aumentano, questo è poco ma sicuro. La percentuale della stagione scorsa in Serie A si attestava intorno al 42%, qualche punto in più rispetto a un anno prima (39,6%), un’infinità al confronto con la stagione 2007-08 (24,3%). Il paragone con il passato remoto, poi, non è neanche proponibile: la legge Bosman ha cambiato le carte in tavola, la libera circolazione ha decuplicato il numero di calciatori stranieri in Italia. Resta un dato, non secondario: saremo sopra la media europea (che è del 33 per cento), ma non siamo affatto i più esterofili del continente pallonaro. Quell’etichetta ce l’ha appiccicata addosso da anni e anni la Premier League inglese, battistrada senza rivali nell’affannosa ricerca di stelle straniere: poco più del 58% i calciatori importati del massimo campionato inglese (un anno prima era stato ampiamente sfondato il muro del 60%), forse il più in vista del panorama continentale. La nostra Serie A, tra i tornei dei Paesi calcisticamente più evoluti, occupa nello specifico il terzo posto, sopravanzata anche dalla Bundesliga tedesca, che è attestata appena sotto il 50% (tetto superato di gran lunga un anno prima). Dietro all’Italia, invece, la Spagna (poco più del 35% di stranieri nella Liga) e la Francia (in Ligue 1 sono il 33%).Se questi sono i numeri, non possono essere gli stranieri il vero (o unico) problema. Perché la Germania ne ha più di noi ma in Sudafrica ha fatto un figurone grazie ai suoi giovani (senza dimenticare i trionfi a livello giovanile), l’Inghilterra non ne parliamo proprio, ma nonostante il pessimo Mondiale aveva una nazionale imbottita di stelle, la Spagna ne ha pochi di meno e sappiamo cos’ha fatto sulla scena iridata, la Francia ne ha ancor meno ma ha ottenuto un risultato non dissimile da quello degli azzurri. Il guaio, forse, è un altro: la distribuzione degli stessi tra le varie protagoniste del nostro calcio. Molto diseguale, in Italia: dall’80% dell’Inter al 17% della Sampdoria. E, soprattutto, con percentuali elevate nei club importanti.Un dato, quello che subito balza all’occhio. L’Inter ha piazzato uno storico tris, la Roma (il secondo club più esterofilo della serie A) ha conteso lo scudetto fino all’ultimo ai nerazzurri: le due squadre più in vista, che all’undici mondiale di Lippi davano un solo giocatore (il giallorosso De Rossi). Nel calcio del tutto e subito, meglio affidarsi agli stranieri che allevare talenti in casa. Non così altrove, come le esperienze mondiali di Spagna e Germania dimostrano: stranieri sì, magari anche tanti, ma senza disdegnare i giovani autoctoni. Senza dimenticare la stessa Inghilterra, pur perdente: ammassa stranieri in ogni squadra, ma dispone di grandi campioni (Rooney, Lampard, Gerrard) e ottimi giocatori (Terry, Ferdinand, Johnson, Lennon, Cole).E poi c’è l’altro aspetto, quello economico, non secondario. Costano tanto i giovani italiani: appena emersi, il prezzo lievita a dismisura. Meglio guardare oltre frontiera, allora: pescare semisconosciuti, pagarli poco e venderli a tanto. C’è chi vi ha costruito la politica societaria, come l’Udinese: ha oltre il 55% di stranieri (terza, dietro Inter e Roma), una certezza per il presente, una miniera d’oro per il futuro. Anche il prezzo conta. Oltre alla scarsa volontà di puntare sui vivai. Stranieri, forse un problema. Fino a un certo punto.