Ugo Tognazzi in "La tragedia di un uomo ridicolo" di Bernardo Bertolucci (1981)
Dei “quattro colonnelli” della grande commedia cinematografica italiana dello scorso secolo, uno solo non risultava sempre simpatico, Nino Manfredi, che pure si rivelò, oltre che ottimo attore, anche regista di grande valore al contrario dei suoi amici/rivali Sordi, Tognazzi e Gassman, che pure tutti tentarono la regia, mentre un “extra” come Mastroianni, versatile quanto loro ma meno portato al comico, si tenne lontano dall’azzardare quell’esperienza. Ma ben pochi si ricordano di quei tentativi mentre tutti, meno forse le ultimissime generazioni, che sembrano amare il minuscolo specchietto da tasca piuttosto che un cinema in cui specchiarsi in vasta compagnia – tutti si ricordano delle loro interpretazioni, da maschere decisive per la “lettura” di un’epoca straordinaria come è stata quella dell’Italia tra il ’43 (caduta del fascismo) e il ’78 (assassinio di Moro).
In quegli anni il cinema accompagnava e prevedeva, commentava e raccontava le molte facce di una società in movimento e in salita. E il cremonese Ugo Tognazzi (scomparso il 27 ottobre di trent’anni fa), ragioniere in un salumificio e poi soldato ma pur sempre attore dilettante e via via, a guerra finita (anche con una rapida e brutta esperienza tra le Brigate Nere) membro di filodrammatiche e, scoperto, pare, nientemeno che dalla super-diva del teatro di rivista Wanda Osiris, si fece attor comico da solo o in compagnia di una “spalla” di grande finezza come Raimondo Vianello, passando dall’avanspettacolo al gran teatro borghese e di lì alla televisione (con un incidente clamoroso quando i due osarono ironizzare su una disavventura del presidente della Repubblica Gronchi, alle prese a una super-prima scaligera con il presidente francese De Gaulle) e di lì al cinema, dapprima con filmetti girati alla buona e presto – lui, non Vianello – inventando un nuovo personaggio della commedia all’italiana, stavolta nordico e di buone maniere e anche un tantino mellifluo, che rivaleggiò con gli altri Grandi e trovò l’apprezzamento di grandi registi che seppero usarlo al suo meglio, affermandosi dapprima in coppia con Vianello in qualche frivolo film di Mario Mattoli (formidabile talent-scout da sempre).
Con Luciano Salce, in Il federale, nel pieno del boom sostenne il ruolo di un comune fascista alle prese con un rappresentante importante dell’antifascismo interpretato da un grande nome del teatro francese, Georges Wilson, e diventando via via l’interprete ideale della figura del borghesuccio nordico, alle prese però anche lui come i meridionali con l’arte di arrangiarsi, anche se mai da affamato o miserabile. Fu grande con Risi (I mostri, Straziami ma di baci saziami), con Lattuada (in un gioiello della commedia, Venga a prendere il caffè da noi tratto dal romanzo La spartizione di Piero Chiara), con Monicelli (Romanzo popolare, Vogliamo i colonnelli, Amici miei), con Citti (Casotto), in Francia con Molinaro (Il vizietto, il film che affrontò comicamente ma affettuosamente il tabù dell’omosessualità), e trovando in Ferreri un alter-ego un po’ sornione in film coraggiosi e insoliti come L’ape regina, La donna scimmia, La grande abbuffata e L’udienza (bizzarra e densa versione “vaticana” del Castello di Kafka, dove fece in qualche modo da spalla a un attore occasionale come Enzo Jannacci). Ma forse la sua interpretazione più memorabile e insolita fu quella del miglior film italiano che abbia affrontato l’ambigua vicenda del terrorismo, La tragedia di un uomo ridicolo di Bernardo Bertolucci, un’interpretazione sottile e geniale, e giustamente apprezzata e premiata.
A proposito di terrorismo, come dimenticare la storica beffa a cui Tognazzi accettò di prender parte per la rivista satirica della nuova sinistra Il male, che lo strillò in copertina come capo delle Brigate Rosse? Personalmente, non posso peraltro dimenticare che fu lui a presentare con Monicelli e Scarpelli in una libreria romana il librone con le testimonianze che avevo raccolto insieme a Franca Faldini sulla Avventurosa storia del cinema italiano, e che ci salvò, me e la Faldini, da dover pagare cifre assurde per aver raccolto la dura testimonianza di Philippe Leroy su un regista minore e che è purtroppo scomparso da poche settimane: Tognazzi doveva lavorare con lui e gli impose di abbassare la cresta.
Ma non si può, per finire, dimenticare il Tognazzi grande cultore di cucina e autore di libri di ricette, il Tognazzi tifoso accanito del Milan e della Cremonese («Il Milan è mia moglie, la Cremonese l’amante »), e soprattutto è doveroso ricordare il legame che unì fortissimamente Tognazzi alla sua città, a Cremona. Patria di formidabili intellettuali come Montaldi e Dossena, e nei dintorni di Mario Lodi e dei raccoglitori di una messe di canti popolari e di protesta, Cremona si è vantata da sempre di tre magnifiche “specialità” con la T: Torrone Torre Tette. Ma Tognazzi correggeva ricorrendo al più puro dialetto, e diceva che le specialità grazie a lui erano diventate quattro: Turòn Turazz Tetazz Tugnazz. Mettendo rigorosamente l’accento sulla seconda sillaba.
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Ugo Tognazzi nel film “La tragedia di un uomo ridicolo” del 1981