Il presidente dell’Aia Alfredo Trentalange, classe 1957, ai tempi in cui arbitrava
All’età di Raphael Mbotela, l’arbitro zambiano, il più giovane del mondo ad aver diretto una gara di professionisti, Alfredo Trentalange arbitrava le partite di calcio giovanile nella sua Torino. E la passione, lo spirito di sacrificio, la profonda fede nel Cielo e nella vita, lo ha portato a diventare un punto di riferimento per la sua categoria, nata nel lontano 1911. L’Associazione arbitri italiani “debuttò” un anno dopo la prima partita della Nazionale: 15 maggio 1910, all’Arena Civica di Milano, Italia-Francia 62. Dal 14 febbraio scorso, Trentalange è il nuovo presidente dell’Aia, il “primo cittadino” di una comunità che tra le 207 sezioni arbitrali, sparse dalla Valle d’Aosta alla Sicilia, raccoglie una popolazione di 30mila tesserati. E ognuno di loro appena indossa la casacca – un tempo nera, oggi sempre più variopinta – del direttore di gara, e porta alla bocca il fischietto, allora comincia a sognare di poter dirigere un giorno in Serie A. «Per me non è stato così – parte con il suo amarcord Trentalange – . Come un po’ tutti i ragazzi della mia generazione (leva calcistica del 1957) ho iniziato giocando a a pallone nell’oratorio del quartiere. Feci un provino per entrare nelle giovanili del Toro ma subito mi fecero capire che era meglio se mi davo al giornalismo sportivo, cosa che ho fatto diventando pubblicista, o in alternativa l’arbitro».
Consiglio quest’ultimo, preso al volo come un cross: a 16 anni prima partita arbitrata in un campetto della periferia torinese. «Arbitrare mi ha insegnato per prima cosa ad avere una disciplina. Sveglia alle 5 alla domenica mattina, preparare la borsa con cura e scendere in strada con la città ancora al buio per prendere anche due pullman per arrivare alle 9 al campo fuori città. Le cose sono cambiate oggi? Molte sì, ma ancora sento genitori che mi confidano, “Ma lo sa che da quando nostro figlio arbitra è migliorato tantissimo, specie a scuola”». Le cose non sono cambiate neppure per quanto attiene alle violenze che gli arbitri da sempre sono condannati a subire. «Minacce, sputi e insulti, purtroppo li devi mettere in conto. Io presi un pugno in faccia da un calciatore in una partita di Terza categoria. Ma poi quel calciatore lo hanno picchiato i suoi stessi compagni mentre gli urlavano: “Ha ragione l’arbitro!”. Ci sono rimasto malissimo, e alla fine mi è dispiaciuto. Anche perché avevo commesso un errore tecnico, non avevo sospeso la partita e ho continuato ad arbitrare... ».
Peccati di gioventù del ragazzino che guardava agli autorevoli signori della Serie A. «Il mio modello era Luigi Agnolin di Bassano del Grappa. Fisico possente, personalità forte, decisa, carismatico. Io ero il contrario: timido, impacciato, fisicamente normale. Ma partita dopo partita scoprivo dei lati sorprendenti del mio carattere. Ragionavo, osservavo tutto con occhi diversi, studiavo e ristudiavo il regolamento, ma soprattutto mi concentravo sui movimenti, sulle caratteristiche e le gestualità dei protagonisti in campo. E poi ascoltavo sempre il parere e i consigli degli arbitri veterani. Vivevo tutto con spensieratezza, mai avuto l’assillo del dover arrivare per forza ad arbitrare i professionisti». E invece, passando per tutte le categorie del dilettantismo quel fatidico giorno arrivò: 18 giugno 1989 al San Paolo per Napoli-Pisa (0-0) dirige il signor Alfredo Trentalange di Torino. Quattro anni dopo venne promosso fischietto internazionale e nel ’97 vince il premio Giovanni Mauro, l’oscar per le giacchette nere nazionali. Sono state circa 200 le “battaglie” che ha arginato, sempre a testa alta. Ha commesso errori «come tutti gli uomini, prima che gli arbitri», ma anche salvato una vita, quella di Jorge Vargas centrocampista cileno della Reggina che nella partita contro il Bari prese una pallonata in volto, perse i sensi e Trentalange intervenne tempestivo evitandogli l’arresto cardiaco. «Eroico? No, ho fatto quello che dovevo».
Era la stagione di serie B 2000- 2001, quasi alla fine di una carriera che si è chiusa nel 2003 a San Siro, (Inter-Perugia). Titoli di coda in campo dopo il suono del triplice fischio, mentre fuori da sempre componeva gli accordi di un percorso professionale parallelo, all’insegna dall’educazione cattolica – «sono stato insegnante di religione e di educazione civica in un liceo» – e fortemente impegnato nel sociale. «Il mio padre spirituale fra Pierluigi Marchesi, mi mandò a Milano a seguire un corso in Bocconi per aiutarlo nella sua avventura psicoterapeutica. Così per anni ho lavorato presso il Presidio “B.V. Consolata” Fatebenefratelli di San Maurizio Canavese. Fra Pierluigi è stato il primo a parlare di “umanizzazione” di quelli che un tempo marchiavano come i “matti” – sottolinea Trentalange – . San Giovanni Bosco è il mio fuoriclasse di riferimento. Poi, nella vita come nella presidenza dell’Aia, mi ispiro alla “politica” della soluzione dei problemi che ci ha tramandato don Lorenzo Milani, il quale ai suoi ragazzi della scuola di Barbiana ripeteva: “Finché ci sarà uno che conosce 2mila parole e uno che ne conosce duecento, questi sarà oppresso dal primo. La parola ci fa uguali”».
Parlare la stessa lingua in campo mette sullo stesso piano anche calciatori e arbitri. E l’inizio della sua presidenza ha sancito il “doppio tesseramento”. «La crescita della cultura sportiva e calcistica nel nostro caso, deve andare di pari passo con la formazione del giovane e del futuro uomo, a prescindere che diventi un arbitro di vertice o meno. Perciò, seguendo l’esempio di altri sport, basket in primis che da tempo ha introdotto la regola che se vuoi allenare devi aver arbitrato un certo numero di partite, anche il calcio da ora si dota della doppia figura del “calciatore-arbitro” ». La nuova norma prevede che il soggetto sia un calciatore under 17 tesserato per società di Lega nazionale dilettanti o di Settore giovanile e scolastico e che da arbitro non venga designato per le gare dei gironi nei quali è presente la società per cui gioca. «La doppia valenza servirà a non vedere più l’arbitro come l’uomo nero, ma come un compagno di gioco: ne beneficeranno sia i direttori di gara che i calciatori e anche i genitori, che troppo spesso lasciano a noi l’onere della funzione educativa. Insomma, questa novità è un bene per il calcio italiano e ringrazio il presidente della Federcalcio Gabriele Gravina per la lungimiranza». Figc e Aia a braccetto hanno anche aperto inediti canali di comunicazione: finalmente l’arbitro può rispondere alle domande dei giornalisti (in Germania vanno in conferenza stampa da tempo) e tenere un rapporto diretto con i media.
«Nella prima domenica della trasmissione Rai 90° Minuto abbiamo mandato in studio Daniele Orsato, ma se i “leoni da tastiera” si accaniscono su episodi di una partita che aveva diretto tre anni prima (Inter-Juventus del 2018), come gli hanno “rinfacciato”, allora ha poco senso la nostra presenza in tv... Ma ho fiducia, siamo solo all’inizio di un nuovo corso». Il corso delle tecnologie in campo invece ormai è in fase avanzata, ma il rischio potrebbe essere un eccesso tecnologico che annulli l’elemento umano. «Questo non accadrà. C’è bisogno di sperimentare ancora e arrivare alla giusta sintesi. La tecnologia è uno strumento che serve a migliorare anche l’etica sportiva. Ai nostri giovani arbitri insegniamo che applicare la giustizia nelle decisioni porta alla pace. Il Var ha una sua peculiarità. Come può sentirsi un arbitro che sbaglia e con il suo errore condiziona il risultato di una partita e a volte l’esito di un campionato? Correggere la valutazione in tempo reale permette di creare le condizioni per il mantenimento di un’armonia generale di tutto il sistema calcio».
Un sistema che è sempre più aperto alle donne arbitro. «Schiacciando sull’acceleratore stiamo recuperando il tempo perduto. Le donne meritano rispetto e attenzione, ma per farle crescere ancora come arbitri dobbiamo dargli tutti gli strumenti tecnici possibili e non offrirgli delle semplici scorciatoie per raggiungere più in fretta la ribalta». Con gli stadi chiusi il razzismo si ha l’illusione che sia una piaga sanata, ma gli episodi in campo si verificano eccome, insieme ai casi di bestemmie dei calciatori e degli allenatori che dalla tv rimbalzano nelle case dei tifosi-spettatori. «Oggi le componenti sono tutte d’accordo per una presa di posizione netta anche perché in tema di antirazzismo esiste un protocollo rigido che prevede fino alla sospensione della partita. Il problema è che non sempre è così semplice da applicare, per via delle ripercussioni sull’ordine pubblico... Quanto alle bestemmie, una volta ho espulso un calciatore di Serie A dopo 15 minuti.... mi diedero del pazzo, del bacchettone. Ritengo invece che punire “per bestemmia” rientri nella missione educativa che deve assolvere un arbitro».
Piccoli arbitri crescono, ma chiusi in casa. Da un anno e mezzo i campionati giovanili sono fermi e viene da chiedersi: che futuro attende questa nuova generazione arbitrale a digiuno di esperienze agonistiche? «La prova che i nostri ragazzi dell’Aia stanno sostenendo è dura, ma io sono certo che una volta superata saranno davvero più forti e migliori di prima. Continuare ad aggiornarsi online, seguire le lezioni della propria sezione è l’unica maniera per prepararsi e farsi trovare pronti alle sfide future. Stiamo già pensando a uno snellimento delle carriere, daremo la possibilità di far esordire prima i ragazzi nelle categorie superiori, in modo che questo anno di stop – in cui però la formazione non si è mai fermata un istante – possa essere recuperato, sul campo».