Anticipiamo in queste colonne un estratto della relazione che il cardinal Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, terrà venersì in chiusura del convegno organizzato dall’Università Comillas di Madrid e dedicato al tema “El transhumanismo”. La tre giornì si aprirà domani con gli interventi di Julio L. Martinez, Teodoro Sánchez-Ávila Sánchez-Migallón e José Manuel Caamaño; nelle successive sezioni a tenere le conferenze di apertura saranno Julian Savulescu, Juan Arana, Adela Cortina e Alicia Villar.
Come è noto, era il 1927 e a Londra presso l’editore Benn il biologo Julian Huxley pubblicava un testo piuttosto provocatorio già a partire dal titolo Religion without Revelation: in quell’opera egli coniava un vocabolo al quale trent’anni dopo avrebbe riservato un breve saggio specifico, transhumanism. La sua concezione, dai contorni un po’ visionari, cercava di far balenare un futuro della specie umana destinato, anche nella linea dell’evoluzione, a trascendere molti limiti attuali, dando origine a una sorta di nuovo fenotipo antropologico.
Dovevano trascorrere altri quarant’anni per veder sorgere, su impulso di Nick Bostrom e David Pearce, nel 1998 la World Transhumanist Association, divenuta poi la Humanity Plus con la sigla H+, che trasformava il neologismo huxleyano nel vessillo ottimistico di un movimento, capace di prefigurare e di configurare un’evoluzione della condizione umana guidata dall’uomo stesso attraverso le risorse delle nuove conquiste scientifiche.
Frattanto, però, si andava coniando un altro termine, 'postumanesimo', che si appaiava al precedente talora come sinonimo, più spesso come cifra del fondamento teorico sotteso al transumanesimo, del quale condivideva il superamento dell’umanesimo classico fortemente antropocentrico, marcatamente etico e fieramente 'culturale'.
Detto in altri termini, i due vocaboli si collocherebbero in contrappunto armonico: il transumanesimo rimanderebbe a un progetto scientifico, mentre il postumanesimo ne sarebbe la versione più filosofica e quindi supporrebbe una visione più globale, segnata persino da ipotesi escatologiche.
Tenendo conto della qualità un po’ nebbiosa della letteratura finora prodotta da e su questa concezione antropologica, evochiamo in modo semplificato solo alcuni lineamenti che potrebbero stimolare anche dialetticamente la filosofia e la teologia. La visione trans-/postumanistica assume e si colloca all’interno di tutti i dati che abbiamo precedentemente descritto. Infatti, anche per questa concezione l’attenzione si concentra sulle straordinarie potenzialità della scienza e della tecnica, sulle loro capacità di modificare i dati biologici umani, senza però dedicarsi alle ricadute etiche, senza indagare sulle implicazioni socio-esistenziali, senza elaborare premesse teoriche che sappiano criticare la pura e semplice pratica coi relativi esiti fisiologici.
Così, ormai abbastanza scontata sembra l’ipotesi del citato cyborg; si rimanda ad alcune discipline e strumentazioni sono entrate nei programmi della ricerca scientifica - pensiamo agli acronimi diffusi come GRIN (Genetics, Robotics, Information technology, Nanotechnology) o NBIC (Nanotechnology, Biotechnology, Information technology and Cognitive science) - ; si accetta la chirurgia ricostruttiva ed estetica dalla pratica sempre più acclamata; si è certi che l’intelligenza artificiale si allargherà verso nuove frontiere con macchine abilitate a eseguire operazioni prettamente umane; si è convinti che l’ibridazione tra uomo e componente tecnica tenderà ad espandersi anche oltre la mera sostituzione o riparazione di organi deficitari, aspirando a migliorare, a potenziare e a trasfigurare la struttura somatica; si spera nel progresso delle neuroscienze verso orizzonti sempre più vertiginosi.
Tendenzialmente l’atteggiamento del trans/postumano è omogeneo a questi progetti scientifici ed è proiettato a superare l’homo faber trasformandolo in homo creator. Si riesce, così, a intuire che sotto l’ombrello del trans-/postumano si riuniscono effettive conquiste benefiche, ma anche scenari dai profili fantascientifici che ereditano la celebre tradizione ebraica del Go- lem, col suo sogno di creare un homunculus analogo all’homo sapiens, dotato di una sua autonomia e di un’operatività non semplicemente programmata, qualità negata all’attuale robot, pur sempre dipendente da impulsi primari umani.
Di fronte a questo panorama impressionante ma anche inquietante (senza essere necessariamente tecnofobi), è interessante cercare di individuare le eventuali matrici ideali e teoriche che lo illuminano. In realtà, bisogna subito affermare che il trans-/postumanesimo è tendenzialmente obbediente al sistema sperimentale della scienza e della tecnica, senza porsi - almeno a livello sistematico - interrogazioni e premesse consistenti e qualificate di indole filosofica e tanto meno teologica. Tuttavia potremmo identificare alcuni postulati generali - spesso piuttosto vaghi e fin mitici - che si affacciano dal background di questi nuovi approcci.
In continuità col postmoderno, il trans-/postumanesimo reagisce all’umanesimo e al suo antropocentrismo razionale che esaltava - anche sulla scia della Bibbia - il primato della creatura umana su ogni altra forma animale, celebrando quasi la sacralità immutabile del soggetto. Di conseguenza, capitale è l’adozione del modello evoluzionistico che stabilisce un nesso col mondo animale e riconosce una dinamicità in crescendo dell’essere umano, destinato quindi a potenziali sviluppi e stadi ulteriori che possono essere sostenuti o indotti dallo stesso uomo.
Si abbattono così, sia pure implicitamente, i capisaldi della filosofia e della teologia tradizionale, come il concetto di natura umana - sul quale ritorneremo - e persino quello di cultura come 'seconda natura' che marca l’umanità. Stando al giudizio di alcuni studiosi critici di questo approccio, tali concezioni forse traggono alle sue ultime conseguenze il dualismo platonico e cartesiano tra corporeo e mentale (non è loro costume parlare di 'anima' o 'spirito'), puntando direttamente al corpo, considerato come una protesi o, come diceva suggestivamente Christopher Hook, una posthesis. Su di essa si può liberamente intervenire, essendo un oggetto a disposizione dell’individuo: si taglia, così, con un colpo di spada (o di bisturi) tecnologico il nodo che vincola nel soggetto umano l’'avere un corpo' e l’'essere un corpo', una unità propugnata anche dalla fenomenologia del secolo scorso (si pensi a Merleau- Ponty).
In questa dissezione si assume solo il possesso strumentale dell’organismo, l’'avere' appunto a disposizione un corpo manipolabile, senza preoccuparsi delle ridondanze che un simile intervento possa avere con l’identità del soggetto umano che 'è' un corpo e pensa e agisce col corpo. In sintesi, questa impostazione - che potrebbe essere anche uno stimolo positivo alla filosofia, giudicata troppo 'metafisica' ed 'essenzialista', perché alleghi al suo dossier una conoscenza dei metodi e dei contributi delle scienze naturali - può attirarsi la critica che, in ultima istanza, il trans-/postumanesimo sia una variante, forse più scientifica e aggiornata, di una visione materialistica dell’essere umano.
Una simile concezione, implicitamente 'filosofica', andrebbe oltre il conclamato ed esclusivo interesse biologico di tale impostazione, generando un’antropologia riduzionistica e amputata da ogni ulteriore dimensione. Rimane, infatti, aperto un interrogativo che già emergeva insistente all’interno della riflessione sull’intelligenza artificiale: è possibile comprendere e realizzare la pienezza dell’uomo limitandosi alla sua struttura fisica secondo categorie solamente tecno-scientifiche?