A destra, Enrico Fumagalli, loggionista di 85 anni nel teatro alla Scala di Milano
Da più di mezzo secolo non manca mai a una prima del 7 dicembre alla Scala. «Ne ho fatte una sessantina ma non ho tenuto il conteggio», confida Enrico Fumagalli. Milanese doc, 85 anni, una voce baritonale energica, è un fedelissimo del loggione. «Sì, posso dire di essere un loggionista storico visto che sono entrato la prima volta alla Scala nel 1954. Avevo vent’anni». Lo scorso ottobre, quando è iniziata la vendita dei biglietti di Tosca che apre la stagione, l’aficionado Fumagalli si è messo in coda alle cinque del mattino del giorno precedente: ventotto ore davanti al Piermarini pur di non perdersi l’inaugurazione. «È da sessant’anni che passo le notti lì se c’è da prendere un biglietto – racconta –. Adesso condivido gli sforzi con un’amica, Renata. La coda della Scala è incontro, condivisione: si discute, si scambiano idee, magari si litiga per il giudizio su un cantante, un direttore o un allestimento». La mente torna indietro. «In passato c’era la possibilità di parcheggiare nella piazza del teatro durante la notte. Allora lasciavamo le macchine vicino agli ingressi e a mezzanotte ci chiudevamo nell’abitacolo per ripararci dal freddo. Una volta la polizia ci ha svegliato tutti. “Perché siete qui?”. E, quando abbiamo spiegato di essere melomani in attesa di un biglietto, gli agenti si sono messi a ridere...».
Il primo incontro dal vivo con Tosca è del 1959. «Rammento ancora quella rappresentazione con Renata Tebaldi nei panni di Tosca e Giuseppe Di Stefano che era Cavaradossi. Poi Tito Gobbi: non ci sarà mai più un artista che interpreterà Scarpia come lui». Il signor Enrico ricorda anche il nome della regista: Margherita Wallmann. «Un’ex ballerina che dopo un grave incidente in scena si era data agli allestimenti. Meravigliosa la sua impostazione: tradizionale ma di rara eleganza». Una pausa. «Sono stato un estimatore di Renata Tebaldi. Impossibile dimenticare la sua Maddalena in Andrea Chénier del 1960. Ancora mi vengono i brividi se penso a come cantava La mamma morta...».
Fumagalli è pronto per Tosca targata Riccardo Chailly. E come ogni buon loggionista non la manda a dire. «Si parla di otto inserti nella partitura. Quando qualche giorno fa ho incontrato il maestro fra i portici del teatro, gli ho intimato: “Ma non avrà mica toccato Vissi d’arte...”?. E lui mi ha rassicurato: “C’è tutto. Nessun stravolgimento, stia tranquillo”. Sperem...». Dal loggione si fischia quando uno spettacolo non viene giudicato all’altezza. «Ho buato un disastroso Ballo in maschera diretto da Riccardo Muti. Salvatore Licitra e Maria Guleghina gridavano come pazzi. Era inevitabile contestarli».
Padre brianzolo e madre meneghina, il signor Enrico ha lavorato nel commercio di tessuti in centro. «E fra le clienti c’era Maria Callas – rivela –. Ma era già agli sgoccioli. Quella Medea del 1962, titolo che era un suo cavallo di battaglia, la considero ancora un mezzo funerale. Infatti poi si è ritirata». Fumagalli snocciola date, titoli e interpreti. «Ho una discreta memoria. Nel 1960 ero fra il pubblico di un Poliuto senza pari. Accanto alla Callas, c’erano Franco Corelli ed Ettore Bastianini: ineguagliabili». E a proposito di Corelli fa sapere: «Nel 1962, dopo gli eccezionali Ugonotti, ho aspettato che uscisse da teatro fino alle due di notte per complimentarmi con lui». Fra le cantanti che ha amato ci sono Giulietta Simionato («Mezzosoprano sublime»), Joan Sutherland («Da australiana aveva una pessima pronuncia, ma la voce e la presenza scenica erano formidabili»), Montserrat Caballé («Il loggione l’aspettava al varco in Norma dopo la Callas: è stata splendida ma più dolce e meno furiosa») o Birgit Nilsson («Eccelsa interprete wagneriana, a cominciare da Isotta»). Quindi un cenno a Pavarotti. «Magico il suo debutto scaligero nell’Elisir d’amore del 1970». Altra pausa. «Lo spettacolo perfetto per eccellenza è stato Simon Boccanegra del 7 dicembre 1971 diretto da Claudio Abbado con la regia di Giorgio Strehler. Il loggione era impazzito». E oggi? «Il loggione è cambiato. Sono meno gli habitué. E le gallerie vengono frequentate molto dai turisti che non capiscono un’acca di lirica e che alle dieci di sera, anche se l’opera non è finita, se ne vanno al ristorante...».