venerdì 7 agosto 2015
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Per entrare in punta di piedi nella vita di Maria Perego occorre bandire anzitutto preconcetti sui marionettisti e semplificazioni su quella che, a torto, viene considerata un’arte minore. Scoprendo con meraviglia che la creatura di Topo Gigio, animata dalle sue mani e inventata insieme al marito Federico Caldura allo scadere degli anni Cinquanta, è stata concepita grazie a ricerche, studi, impegno. Elaborazione complessa che ha generato un personaggio «antiretorico e antimoralistico, senza enfasi», alto poco più di venti centimetri, capace di conquistare gli spettatori grandi e piccoli con simpatia, tenerezza, ironia e un pizzico di romanticismo. Veneziana di origine, classe 1923, la inesauribile e sagace Perego ha appena pubblicato con Marsilio la sua autobiografia che già nel titolo ripropone il suo alter ego: Io e topo Gigio. Vita artistica e privata di una donna straordinaria (Marsilio, pagine 286, euro 18,50) esprime un binomio indissolubile tra inventore e invenzione, o forse sarebbe meglio dire fra creatrice e creatura. Ha sentito il bisogno di scrivere questo libro per preservare e tramandare questa arte considerata, a torto, minore? «In Italia l’arte di figura è stata sempre stata poco considerata e valutata con una buona dose di snobismo e di pregiudizio, invece ha vissuto accanto alla commedia dell’arte ed è stata valorizzata da grandi burattinai e marionettisti straordinari. Ho sempre amato il teatro di figura: leggendo un copione o una pièce, vedevo che erano più che adatti a essere rappresentati in questa modalità. Tuttavia concludo il libro affermando che Topo Gigio pupazzo esiste ancora, ma non è più attuale e possibile. C’è la tecnologia e il personaggio è diventato virtuale. Ma lo sento mio anche così, perché conserva lo stesso approccio nel gesto, nella grazia, nei movimenti, nel modo di camminare che deve essere mantenuto». Quali sono stati i suoi maestri di recitazione? «Achille Majaroni, allievo di Ermete Zacconi, che ho avuto come docente nella scuola d’arte drammatica che ho frequentato a Venezia dal 1944: mi ha dato le facoltà di retorica che il burattino deve avere per inserirsi nella spettacolarità. Se non gli si dà un’anima con il movimento, esasperando il gesto, resta solo un pezzi di materia qualsiasi». In Topo Gigio ha poi messo qualcosa delnaggio. la sua infanzia, molto serena peraltro, nutrita di libri e musica? «Non molto, a parte l’incanto di fronte alle cose. Che ho raggiunto un po’ alla volta. Perché Gigio si rivolge a un pubblico eterogeneo, se viene osservato con attenzione ». Dove ha avuto maggior successo? «Sicuramente negli Stati Uniti, grazie alla messa in onda di 94 puntate dell’Ed Sullivan Show, e un centinaio a Londra. Ho ricevuto molto affetto anche in America Latina. In Rai arrivavo ad avere ascolti enormi, fino a ventidue milioni di telespettatori. Il pubblico è meraviglioso, sa distinguere il buono e il cattivo». Gigio virtuale continua il suo dialogo con i grandi e i piccoli di oggi? «Certamente. Inoltre sono in corso trattative per un eventuale ritorno di Gigio nel cinema, ovviamente negli Usa, dov’è amato come personaggio, un classico non considerato come arte minore. Perché l’arte può essere bella o brutta, non minore. Invece in Italia resistono ancora preconcetti, riserve culturalmente formate, nei confronti dell’arte di figura». Vede suoi eredi nella scena artistica contemporanea? «Nell’arte del pupazzo non credo, perché ormai è molto difficile sostenerla. Una volta c’era più richiesta». Lei era nascosta dietro un personaggio. Crede che oggi la voglia di apparire faccia svanire l’umiltà e il garbo di una volta? «È un atto di fede muovere dei pupazzi, vestita di nero, senza avere un successo personale. Bisogna amare il genere, capirlo, avere le motivazioni. Ma rimanere dietro le quinte era più duro per chi dava la voce: Peppino Mazzullo, attore e doppiatore. Comunque il personaggio ci ripagava: fuori dal cappuccio nero avevamo un grande successo, eravamo amati perché portavamo dei grandi ascolti e successi nei canali in cui andavamo. Ma io non sentivo il peso di essere nascosta dietro Topo Gigio». Nel libro esprime nostalgia per gli sceneggiati televisivi del passato, soppiantati dalle fiction e, ancor peggio, dai reality show. Secondo lei la tv digitale e on demand può rispondere ai gusti variegati  del pubblico? «Quello che io trovo nelle fiction di oggi, e non so perché, è una mancanza di ideazione nelle sceneggiature. Mentre l’autore è molto importante, dà forza ai testi. Gli sceneggiati di una volta andavano a pescare in autori che avevano spessore. Oggi riesco a seguire, anche in replica, Il commissario Montalbano, tratto dai romanzi di Andrea Camilleri, grande firma e grande pensiero. Non seguo altre fiction: non ho mai tempo. Vedo i telegiornali, seguo lo sport, i talk-show mi divertono. Vittorio Sgarbi mi piace per la sua estrema cultura. E poi su Rai 5 guardo documentari meravigliosi, che informano e fanno ripassare nozioni già studiate». Ha in cantiere un altro libro? «Sto ultimando un romanzo storico iniziato anni fa da mia sorella Sandra e ambientato nell’antica Roma: la storia di due famiglie patrizie che si intrecciano con le vicende dell’Impero. Ho attinto a documenti e fatti reali, consultando molti volumi in biblioteca: nella mia vita c’è sempre stata molta biblioteca. Sul mio comodino ho Vita e destino di Vasilij Grossman. Amo i classici del Novecento, un grande secolo, uno dei più innovativi dal punto di vista letterario, teatrale e scenografico. E la letteratura italiana è incantata, da Natalia Ginzburg a Elsa Morante a Primo Levi».
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