Gustave Thibon (1903-2001)
Chiamatelo pure “il filosofo contadino”. Viene ricordato proprio così, con un epiteto per nulla dispregiativo che anzi esprime tutta la nobiltà e l’originalità della sua prospettiva. Perché il francese Gustave Thibon ha fatto della concretezza della terra e della campagna non solo il suo habitat preferito ma anche il punto di partenza del suo pensiero, tanto vitale e controcorrente oggi, nell’era del politicamente corretto. Innamorato della quiete rurale, volutamente lontano dal modello dell’intellettuale politicamente impegnato, la sua fu un’esistenza poco “social”, per sua stessa ammissione: «La mia vita non ha nulla di esemplare e non amo le confidenze pubbliche». Si spiega così almeno in parte la marginalità a cui è stata condannata la sua figura, sulla quale grava anche una controversa difesa del maresciallo Petain che bastò ai suoi detrattori per infangarlo e assoldarlo tra le fila dei collaborazionisti di Vichy. Eppure pochi ancora sanno che Thibon fu amico intimo di Simone Weil, mistica transalpina di origini ebraiche che lo considerava «un francese come non se ne trovano più da tre secoli a questa parte». Fu proprio lui ad accoglierla nella sua fattoria quando durante la Seconda guerra mondiale la pensatrice discriminata decise di ritirarsi in campagna. E a Thibon deve la sua stessa notorietà visto che fu lui a far pubblicare dopo la morte della sua amica L’Ombra e la Grazia (1947), raccolta di pensieri che fece conoscere al mondo il nome di Simone Weil. Una fama invece negata all’erudito contadino, che gode ancora di scarsa considerazione.
Pregevole è allora il lavoro della casa editrice D’Ettoris che pubblica Il tempo perduto, l’eternità ritrovata. Aforismi sapienziali per un ritorno al reale (pagine 516, euro 25,90) di Gustave Thibon, a cura di Antonella Fasoli. Uno scrigno di saggezza da custodire con cura, un testo che rende giustizia a un uomo a cui nel 1964 fu comunque assegnato il “Grand Prix de Littérature” dall’Accademia Francese per la sua vasta produzione letteraria. Un traguardo non da poco visto che parliamo di un autodidatta in possesso della sola licenza di scuola elementare. Da solo infatti apprese il latino, il tedesco, l’italiano e lo spagnolo, leggendo avidamente Céline, Proust, Hugo, Baudelaire o il poeta provenzale Mistral. Nato nel 1903 a Saint-Marcel-d’Ardèche, nel sud della Francia, fu costretto a interrompere gli studi allo scoppio della Prima Guerra Mondiale per prendersi cura delle terre del padre chiamato al fronte. E fino alla morte, il 19 gennaio del 2001, Thibon si divise tra biblioteca e campagna, in compagnia della moglie e dei tre figli. Amico di Maritain, ritrovò da adulto la fede abbandonata durante l’adolescenza e fu per lui una riconquista decisiva: «Il cattolicesimo - dirà poi - fu per me un salvagente sull’oceano della vita terrena, e che ho preso per l’estremo porto».
La sua produzione molto vasta, spazia dalla filosofia alla matematica, dalla medicina alla letteratura. Opere scandite per lo più da brevi riflessioni, spesso veri e propri aforismi. Nel volume pubblicato da D’Ettoris sono stati raccolti tre saggi ( La Scala di Giacobbe, L’ignoranza stellata, Il velo e la maschera) accomunati da un profondo realismo sulla nostra condizione di creature che aspirano al bene ma sono inclini al male: «Non voglio altra prova della rottura tra l’uomo e se stesso di quella che il Cristianesimo chiama peccato originale (…) Non ho nemmeno bisogno di crederci: l’evidenza dispensa dalla fede». Scritti infuocati da quella bruciante ricerca della verità in ogni ambito dell’esistenza, in primis nel rapporto con Dio. Una questione decisiva eppure snobbata dal pensiero moderno: «Nel Medioevo, non si conoscevano tutte le pieghe della serratura umana e cosmica, ma si possedeva la chiave che è Dio. A partire da Cartesio, si è esplorata a fondo la serratura, si è potuto descriverla in modo sempre più dettagliato, ma, nel corso di questa ricerca si è smarrita la chiave! Il mondo e l’uomo sono diventati serrature senza chiave». Ma Thibon non è certo un cantore del passato, bensì un cantore dell’eterno: «Noi che crediamo alle leggi immutabili della natura umana, non abbiamo nulla di nuovo da portare se non l’eterno».
Una convinzione espressa fino al termine dei suoi giorni: «Ho divorato la vita (esseri, avvenimenti, amori, esempi..): non ne ho assimilata che una flebilissima parte. Ho bisogno di un’eternità - e non solamente per entrare in una vita nuova, ma per rivivere, alla luce di un sole senza tramonto, questa vita di quaggiù di cui ho appena sfiorato le profondità, per rifare la stessa strada percorsa così frettolosamente e distrattamente. Ciò che non è eternità ritrovata è tempo perduto, ho detto una volta. Si può rovesciare la formula: mancherebbe qualcosa all’eternità se essa non fosse anche tempo ritrovato». È l’ardore di un uomo libero e fuori dagli schemi come sottolinea nella prefazione Benedetta Scotti: «Al marxista che predica l’auto- redenzione dell’uomo, al liberale che ne sbandiera l’autonomia assoluta, Thibon ricorda che l’uomo è capace di grandezza nella misura in cui accetta di non salvarsi da solo, nella misura in cui accetta che le cose di quaggiù non bastano a compiere il desiderio infinito del suo cuore». Dimenticando invece di essere soltanto delle creature, ci arroghiamo il diritto di decidere della vita e della morte dei nostri simili (aborto ed eutanasia) e pretendiamo di manipolare a piacimento il dato di realtà, perfino l’identità sessuale (come sostiene l’ideologia gender) generando infelicità e frustrazioni. In un mondo che sembra aver smarrito la ragione, il pensiero di Thibon, così ancorato al “reale” è allora un balsamo efficace per le ferite del nostro tempo.
In una società che sta facendo a pezzi i legami, l’uomo, senza più alcun riferimento alla famiglia, alla terra e alla comunità, è uno sradicato che ha smarrito il buon senso, il senso della realtà. E consapevole di essere anticonformista Thibon attacca: «Si rimprovera alla filosofia del buon senso di essere mediocre e terra a terra. Risponderò che non escludo a priori le follie sublimi, ma che, per l’appunto, bisogna avere molto buon senso per discernere le circostanze in cui conviene perderlo». Tenace filosofo del buon senso (oggi perduto), la sua profondità è quella di un uomo che ha grande confidenza con le Scritture. Come mostrano anche alcuni aforismi: «L’uomo nobile è colui che la sofferenza rende tenero e che la felicità fa pregare ». O ancora: «Paradossalmente, si è pronti a morire solo nella misura in cui si hanno delle vere ragioni per vivere». Sono perle di vera saggezza, quella che consiste nel rimanere fedeli tanto al realismo della terra quanto alle verità eterne del cielo, poiché: «Le cose supreme non si espandono che dall’altro lato della tomba. Ma esse cominciano quaggiù e il loro fragile seme è nei nostri cuori, e nulla fiorisce nel cielo che non sia almeno germogliato sulla terra».