La Coppa fu celebrata con un orologio. Svizzero, di gran marca. Almeno, queste erano le richieste della squadra. Quando chiesero agli azzurri che cosa desiderassero per ricordare, e festeggiare l’impresa, vi fu addirittura una riunione. Alla fine, la decisione venne presa all’unanimità, e com’era la norma fu mandato avanti Adriano Panatta, a chiedere e trattare… Un orologio d’oro, con una bella scritta e la data della vittoria. 19 dicembre 1976. L’oro in questione non era il frutto di avidità né di una troppo alta considerazione di se stessi, che non erano certo i tratti di quei ragazzi nati da famiglie di una piccolissima, nuova borghesia che ancora non era tale, ma ci dava dentro da matti per esserlo. Adriano figlio del custode del Tennis Club Parioli, Corrado Barazzutti di un poliziotto, Paolo Bertolucci di un maestro di tennis, Tonino Zugarelli di un operaio che gli aveva insegnato ad accomodare e costruire, cosa che Tonino non ha mai smesso di fare, con quelle sue mani veloci ma prive del pollice destro, lasciato in un qualche lavoro svolto forse un po’ troppo di fretta, o sbadatamente.
L’unico tennista che abbia impugnato la racchetta con quattro dita. E basterebbe questo a dire di che pasta erano fatti. Chissà se qualcuno di loro l’ha conservato, quell’orologio della Coppa Davis 1976, o se la polvere ha finito per occultarlo, come ha fatto con molti degli accadimenti di quei giorni di quarant’anni fa. Forse, o forse no. Quella Coppa la vinse una squadra, e anche questo si tende a dimenticare. Una squadra vera, nata con l’idea che la Davis fosse se non tutto, certamente molto, una parte irrinunciabile della loro attività, da condividere con chi li aveva cresciuti fino a farli diventare tennisti veri, magari anche uomini, anzi, sicuramente uomini. E da condividere con l’Italia, se solo qualcuno avesse ragionato in termini strettamente sportivi. Era come un Mondiale vinto nel calcio, e ancora oggi è l’unica vittoria che pose l’Italia del tennis davanti a tutti, in uno sport che non ci ha mai concesso dei numeri uno.
Ma i Settanta, non solo da noi, furono anni diversi, se non altro per il fatto che le tante esigenze che si palesavano, e si mischiavano fra loro - su tutte la voglia di cambiamento e, dall’altro lato, la preoccupazione di chi si chiedeva dove saremmo mai andati a finire - erano vissute da dentro, erano pensieri e dibattito quotidiano. Non erano imposte dall’alto, dal mercato, dalla tecnologia che si espande e non smette di farlo, dalla televisione, dai cosiddetti opinionisti. C’era la libertà di decidere come essere e dove andare, ed era bellissimo sentirsela addosso, anche se le risposte (essere come? andare dove?) non erano poi così chiare né tanto meno scontate. Così, alla fine, se riviste con gli occhi degli azzurri, le molte polemiche che portarono l’Italia a un passo dalla rinuncia a giocare quella finale in Cile, a Santiago, sotto gli occhi stessi di Pinochet, dittatore sanguinario, non è difficile comprendere come apparissero fuori luogo. Erano atleti, volevano giocare e vincere e pensavano, con sincerità, che su quella Coppa d’argento il nome da incidere fosse Italia, e non Cile. Insomma, che fosse «più giusto», anche a futura memoria.
Eppure aveva senso anche quel «Non si giocano volée con il boia Pinochet» che rese così difficile decidere il da farsi e portò l’Italia a un passo dal «no». Fu lo slogan che espresse a suo modo uno sbigottimento generazionale, quello di larghe masse giovanili che non ritenevano che un mondo d’amore e di pace (gli anni del Flower Power non erano poi così lontani) potesse sorgere tra i rovi di dittature violente, facendo finta di niente. Per quei ragazzi, non doveva essere quello di oggi il mondo in cui sarebbero diventati adulti, avrebbero fatto figli e sarebbero invecchiati. Hanno perso, e di motivi ve ne sono sin troppi, ma dare loro torto a prescindere, e in termini generali (non solo sulla vicenda Davis, intendiamo) sarebbe a dir poco miope. Serviva una soluzione politica, come sempre quando le storie si attorcigliano e si rischia il peggio. Lo sbigottimento non è difficile trasformarlo in rabbia, e la rabbia in atti e parole pericolosi. Così stava avvenendo, fra uno sciocco assalto alla sede della federtennis e telefonate minacciose a Pietrangeli, il capitano, che si spese in cento dibattiti televisivi in difesa del punto di vista «degli sportivi». Adriano Panatta era da settimane negli Stati Uniti, Barazzutti e Zugarelli in Argentina.
Furono sfiorati dalla violenza del dibattito, ma non coinvolti. Adriano, socialista da sempre, nenniano per crediti familiari, capì la mala parata quando Bambino, il suo factotum e guarda spalle a Firenze, l’avvisò che in città c’era chi gli avrebbe messo volentieri le mani addosso. Stava partendo, «ok», rispose a Bambino, «avvisali che sarà per un’altra volta, quando torno». L’aspetto curioso, alla fine, fu che quando la decisione politica prese forma, fra mille dibattiti interni al Partito Comunista, missive internazionali, accuse, cortei, mal di pancia e rovelli democristiani se fosse o meno giusta la posizione di Andreotti, quel 'pensateci voi' che molto ricordava il lavarsene le mani, la soluzione fu l’esatta fotocopia del «pensiero sportivo». Fu Corvalan, il capo del partito comunista cileno a inviare una lettera a Berlinguer chiedendogli perché mai il Pci si stesse opponendo. Inviate qui i vostri atleti e i vostri giornalisti, fate in modo che vedano, che scrivano, e che vincano, fu il tono della missiva. Berlinguer capì, il senatore Ignazio Pirastu, responsabile sport del Pci, che tanti duelli televisivi ingaggiò con Pietrangeli, capì; e Andreotti non chiedeva di meglio, visti anche i contratti in atto fra i due Paesi, quelli sul rame in particolare; e l’Italia partì per il Cile. O meglio, Pietrangeli partì per il Cile. Sotto scorta. Dai voli nazionali, ché in quelli internazionali si temeva vi fossero contestatori. Gli altri si dettero appuntamento a Santiago.
E vinsero, com’era normale che fosse. Era la più bella squadra che si potesse immaginare in uno sport che vive di individualismo, e il Cile di Fillol e di Cornejo non era all’altezza. Tre a zero in due giornate, la Coppa alzata dalle magliette rosse di Adriano e Paolo, gli altri intorno a festeggiare, poi in spalla, Belardinelli su tutti, padre tennistico e forse anche di più dei ragazzi. Pinochet non si fece vedere, i giornalisti non scrissero nulla di diverso dalle cronache sportive, e il regime sparpagliò intorno allo stadio un bel po’ di comparse pronte a recitare la parte dei cileni felici nel caso qualcuno avesse voluto sentire la «voce del popolo». Ma a distanza di 40 anni, c’è scritto Italia sulla bowl, ed è meglio così. Il tennis entrò nelle case degli italiani, Panatta ne fu il portabandiera, i nuovi borghesi invasero i campi. Racchetta e crescita sociale. Arrivò anche l’orologio, ma non d’oro. Di acciaio. E non di gran marca. «Esagerati, non ci sono soldi da spendere», fu la risposta che ricevettero gli azzurri.