Era il 1980 quando Roddy si faceva impiantare una telecamera in un occhio per filmare il dolore e la morte. Bertrand Tavernier a quell’epoca, girando
La morte in diretta, non pensava proprio a ciò che sarebbe successo poi, nella vita quotidiana della gente. Al Festival del Cinema Europeo di Lecce, in programma fino a sabato prossimo, in cui il regista francese è grande protagonista, ricorda con quanta ingenuità avesse affrontato un tema così difficile. «Pensavo in maniera naïve che fosse un film di fantascienza. Quindici anni dopo era diventato neorealista. Non credevo certo di anticipare i tempi in cui viviamo, dove tutti hanno una telecamera in mano per filmare qualsiasi cosa. Il numero degli studenti che hanno commesso delitti e li hanno filmati mentre li compivano, condannati perché spie di se stesse, è una testimonianza angosciante della loro stupidaggine. La vanità e l’irresponsabilità portano addirittura le persone a lasciare traccia dei propri delitti. Sono allarmato: educatori, filosofi e sociologi non hanno ancora compreso l’emergenza sociale ed educativa che stiamo vivendo».
Allarmato anche dall’intolleranza e dalla violenza che ci circonda. «Non sono particolarmente ottimista. Ma nemmeno ho nostalgia per i tempi passati. Ho il rimpianto per alcune cose che non ci sono più, ma non penso che il progresso sia sempre foriero di bontà. Dobbiamo continuare a combattere per preservare ciò che è importante per la vita e la cultura».
Sarebbe tentato di girare un film sui terribili fatti che accadono nei nostri giorni? «Quando ho realizzato
La princesse de Montpensier, presentato in concorso a Cannes nel 2010 e purtroppo mai distribuito in Italia, ambientato durante le guerre di religione in Francia nel XVI secolo, pensavo al mondo d’oggi perché quel soggetto per me era moderno. Allora in nome dell’amore di Dio si massacravano gli Ugonotti, oggi si massacrano i cattolici».
Per lei il passato è riflessione, non solo memoria: il 1719 in “Che la festa cominci...”, la Prima Guerra Mondiale de “La vita e niente altro” e “Capitan Conan”. «La storia è una fonte di formidabili soggetti drammatici. Quando leggo una biografia o un saggio su una certa epoca, di colpo dentro di me nasce un film. La storia ha anche il vantaggio che ti aiuta ad essere analitico e contemporaneamente a selezionare ciò che è importante ai fini di una narrazione o dell’emozione».
Ci sono capitoli ai quali sta pensando per i suoi prossimi impegni? «Due soggetti, assolutamente incredibili. Il primo è sulla fine di Robespierre, di come sia passato dal trionfo pubblico alla ghigliottina in soli cinque giorni. Un drammaturgo potrebbe trovare delle ragioni che lo storico non riesce ad acquisire. Un altro soggetto sul quale sto lavorando sono i negoziati del dopoguerra, durati anni, tra le diplomazie tedesche, francesi, inglesi ed ebree sui danni di guerra e la responsabilità dei tedeschi delle perdite morali e materiali di intere famiglie e nazioni».
In “Quai d’Orsay – Un ministro francese”, di prossima uscita in Italia, guarda più al presente del suo Paese. «Mi affascinava il fumetto di Lanzac & Blain sulla vita supersonica di questo Ministro degli esteri francese, che ricorda molto Dominique de Villepin, e di come dal caos vorticoso creato da quest’uomo politico, incapace di rispettare la vita privata di chi gli sta attorno, siano soffiate energie che hanno portato a uno dei discorsi tra i più alti nella storia della diplomazia francese, quello pronunciato all’Onu il 14 febbraio 2003 dal vero Villepin contro la guerra in Iraq. Ancora una volta il contesto sociale e politico in cui sono immersi i miei personaggi è fondamentale. Non potrei concepirli separati dal mondo».
Il prossimo progetto è ancora dedicato alla Francia. «Due film intitolati
Il mio viaggio nel cinema francese, fatti anche di immagini d’archivio. Un omaggio e un ricordo».
Alberto Barbera, tra le motivazioni con le quali ha annunciato il Leone d’Oro alla carriera che lei riceverà nel corso della prossima Mostra del Cinema di Venezia, l’ha descritta come «un autore completo, istintivamente anticonformista, coraggiosamente eclettico». «Mi piace essere completo, ma adoro la definizione di anticonformista ed eclettico. Ho sempre amato i registi che hanno dato prova di immaginazione. Michael Powell è stato sempre il mio riferimento. Ma nella mia vita mi sono rivolto spesso a Kurosawa e Jean Renoir, che hanno fatto film così diversi tra loro. E a Bergman, il maestro dell’intimità. Penso che ci siano due tipi di registi. Ci sono i minatori che scavano nella miniera andando alla ricerca di qualcosa di sempre più puro. E poi ci sono i contadini, che coltivano il grano e il mais e allevano i polli e il bestiame. Lavorano in modo tradizionale, si occupano di tante piccole cose. Io sono un contadino».