sabato 9 dicembre 2017
Parlarlando a “Più libri più liberi” dice della Terra dei fuochi: «La spazzatura è il lato oscuro delle società consumistiche». E sulla chirurgia estetica: «Il bisturi vuol cambiare la realtà»
L'antropologo Michael Taussig

L'antropologo Michael Taussig

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Michael Taussig è un antropologo che si trova particolarmente a suo agio con i neologismi. Una trentina di anni fa fece sua la categoria di fictocriticism per indicare uno stile di scrittura saggistica nel quale l’obiettività scientifica si contamina con gli stratagemmi tipici del romanzo. «E con un po’ di senso dell’umorismo - aggiunge sornione - . Sa, non capita spesso che un professore universitario si prenda gioco del gergo accademico in voga al momento». Australiano di Sydney, Taussig porta con dinoccolata eleganza i suoi 77 anni. Attualmente insegna alla Columbia University di New York, ma trascorre ancora molto tempo in Colombia, il Paese nel quale è arrivato per la prima volta mezzo secolo fa, quando ancora lavorava come medico. Proprio a partire dall’osservazione di quanto accade nelle località più remote dell’America Latina Taussig ha elaborato i suoi studi, che iniziano ad arrivare in Italia su iniziativa di due piccoli editori presenti in questi giorni alla fiera romana Più Libri Più Liberi: da DeriveApprodi esce infatti il classico Il diavolo e il feticismo della merce (traduzione di Stefania Consigliere, Emanuele Fabiano e Alessia Solero, pagine 332, euro 22), apparso originariamente nel 1980, mentre Meltemi propone il più recente La bellezza e la bestia (traduzione di Emanuele Fabiano, pagine 244, euro 18), in cui si indaga il legame perverso tra narcotraffico, violenza paramilitare e chirurgia estetica. Anzi, «chirurgia cosmica», come Taussig suggerisce di chiamarla, calcando ancora una volta sul pedale del neologismo. «Col bisturi non ci si limita ad abbellire un corpo - spiega, anticipando i temi del dibattito che si terrà domani alle 16,30 alla Nuvola dell’Eur - , ma si cerca di dare una nuova forma al mondo. La bellezza alla quale si mira non è una sovrastruttura della realtà, ma una sua infrastruttura, come direbbe Georges Bataille».

Vale solo per la Colombia?

«No, il principio fondamentale dell’antropologia è proprio questo: imparare qualcosa su noi stessi attraver- so l’esperienza degli altri, non importa quanto lontani o differenti dalla nostra quotidianità possano apparire. Durante le ricerche per Il diavolo e il feticismo della merce , per esempio, mi resi conto di come le pratiche magiche adottate dagli operai colombiani risultassero illuminanti per comprendere meglio il capitalismo contemporaneo. Riflesse nello specchio straniante delle credenze altrui, le nostre convinzioni perdono molto della loro apparente normalità, costringendoci a prendere coscienza di elementi che altrimenti resterebbero inavvertiti».

Da qui la necessità del lavoro sul campo?

«Certo, anche se oggi il fenomeno delle migrazioni dà a ciascuno di noi l’opportunità di assumere su di sé, in qualsiasi momento, lo sguardo dell’altro. Il mondo sta cambiando con una rapidità straordinaria e nessuno può seriamente illudersi di arrestare un processo così imponente. So bene che la nozione di identità nazionale sta tornando di prepotenza in molte parti del mondo, ma si tratta di costruzioni fantastiche, prive di un vero fondamento reale. Prenda il Regno Unito: in che cosa consisterebbe esattamente la 'britannicità' che l’uscita dall’Unione europea permetterebbe di tutelare? In Australia come in Ungheria, negli Stati Uniti e perfino da voi, in Italia, c’è chi invita a combattere in nome di una purezza che non è mai esistita e che, di sicuro, non potrà esistere nella società di domani. Trovare un equilibrio non sarà facile, ma non c’è alternativa. Dobbiamo essere accoglienti e creativi, perché l’altro ci insegna sempre qualcosa».

Che cosa possiamo fare per accorgercene?

«Convincerci sempre di più che noi stessi siamo parte del cambiamento. Vede, uno dei motivi per cui i miei libri mescolano narrazione e ricerca sta nel fatto che, come antropologo, non posso accontentarmi di un ruolo distaccato, da osservatore esterno rispetto alla realtà che cerco di descrivere. Al contrario, mi lascio guidare dalle mie sensazioni e dalle suggestioni provenienti dalle persone e dalle situazioni che incontro. Solo così si riesce a scendere in profondità per cogliere il nesso tra quello che appare vicino e quello che appare lontano, marginale. Come la spazzatura, che porta in superficie il lato oscuro delle nostre società consumistiche. La cosiddetta 'Terra dei fuochi', qui in Italia, è un caso di estrema importanza, che intendo studiare sul campo nei prossimi mesi».

Siamo agli antipodi della “chirurgia cosmica”, no?

«Non direi, perché in un modo o nell’altro sempre di estetica stiamo parlando, e l’estetica è un principio economico e politico: tanto più economico e politico, potremmo dire, quanto meno questo aspetto viene riconosciuto e posto al centro della riflessione. I modelli di bellezza che ci illudiamo di seguire non riguardano la dimensione della forma, ma sono espressione di una forza che, pur manifestandosi in maniera più diretta e violenta in America Latina, è in azione ormai in tutto il mondo, con effetti devastanti. Nel contesto colombiano le pratiche di modificazione del corpo, specie femminile, trovano corrispondenza nelle mutilazioni di cui si servono le formazioni paramilitari per distruggere e intimidire gli avversari. In entrambi i casi, i legami con il narcotraffico sono evidenti, ma poco o per niente discussi. La riflessione sui paramilitari, in particolare, è del tutto assente dal dibattito relativo al processo di pace in corso nel Paese».

Intervenire sul corpo è un’azione politica, dunque?

«Sì, perché non si limita al corpo, ma interviene sui rapporti sociali, sulla mentalità, sui processi economici. L’estetica è politica, lo ripeto. Ed è anche un fattore di efficienza molto più potente di quanto si voglia far credere. Negli anni Settanta, all’epoca dei miei primi viaggi in Colombia, ogni fattoria era dotata di una specie di foresta tropicale in miniatura. Gli alberi crescevano quasi senza necessità di intervento umano, il raccolto era abbondante e il paesaggio magnifico. Di tutto questo non resta più nulla. Le multinazionali hanno imposto la monocoltura della canna da zucchero e i contadini hanno ceduto i loro terreni alle piantagioni ricevendo in cambio un pezzo di carta privo di alcun valore. Tutto in nome di un’efficienza illusoria e di una bruttezza conclamata. Bellissime sono diventate, in compenso, le divise di poliziotti e vigilantes ».

C’è un rapporto fra questi processi e l’invito, sempre più insistente, alla trasgressione?

«La trasgressione è il più popolare tra i nuovi dèi che hanno cominciato a essere venerati dopo che Nietzsche, oltre un secolo fa, si è affrettato a proclamare la morte di Dio. Per rendersene conto basta guardare come si vestono oggi i ragazzi e le ragazze. In Colombia gli anziani li chiamano desnudos , 'nudi', ma forse sono rimasti gli unici a notarlo. Motivo in più per ascoltarli, non crede?»

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