Tarcisio Burgnich prima di Italia-Lussemburgo del 31 marzo 1973, gara di qualificazione ai Mondiali in Germania Ovest - Ansa
La “Roccia” ha ceduto. Dopo una lunga malattia se n'è andato a 82 anni Tarcisio Burgnich. Fu Armando Picchi, di cui ricorre domani il cinquantesimo della morte, a dargli questo soprannome quando arrivò all'Inter di Helenio Herrera inaugurando una stagione di successi. Con l'Inter vinse quattro scudetti, due coppe dei campioni e due intercontinentali. Fu con la casacca nerazzurra che conquistò il posto in nazionale, dove disputò 66 partite con l'unico neo di non avere impedito a Pelè di saltare più in alto e insaccare di testa il gol dell'1-0 nella finale dei Mondiali di Massico '70, spegnendo il sogno di conquistare, dopo gli Europei del '68, anche la Coppa Rimet in finale col Brasile dopo la leggendaria sfida dell'Azteca contro la Germania Ovest (4-3).
«Alla vigilia dell'Europeo ci lascia un grande campione d'Europa. La sua morte è l'ennesima ferita inferta al cuore dei tifosi azzurri e di tutti gli appassionati di calcio» ha commentato il presidente della Federcalcio Gabriele Gravina, appena appresa la notizia della scomparsa di Burgnich avvenuta nella notte alla clinica San Camillo di Forte dei Marmi. Domani pomeriggio alle 14,30 si svolgeranno i funerali a Viareggio presso la chiesa di San Giovanni Bosco. «Con la sua forza e la sua determinazione ha scritto bellissime pagine di storia del calcio italiano» aggiunge Gravina, che ha disposto un minuto di silenzio prima dell'amichevole dell'Italia di venerdì contro San Marino.
«Una mancanza pesante quella di Tarcisio - dice il corregionale e compagno in azzurro Dino Zoff -. Ci conoscevamo da tantissimi anni ma negli ultimi anni siamo stati io da una parte e lui dall'altra, l'ultima volta l'ho sentito un anno fa. È la grande perdita di un grandissimo difensore e di un brav'uomo, una grande persona». «Quando giocava lui erano preoccupati tutti gli attaccanti, ne parlavo qualche tempo fa con Riva: “Che pessima domenica quando gioca Tarcisio” - è il ricordo dell'ex compagno di Inter e Nazionale Roberto Boninsegna -. Che brutta notizia, eravamo molto amici fin da quando eravamo in giovanile dell'Inter. In allenamento lui mi marcava ed era davvero difficile prendere palla, uno dei più grandi marcatori di sempre. In Messico ha marcato Pelé benissimo, era l'unico a poterlo fare in quel modo. Era un friulano tosto, e quando manca un amico così è davvero un pessimo momento». «Tarcisio era fortissimo - dice capitan Sandro Mazzola -, l'avversario più forte lo doveva sempre marcare lui».
Figlio della guerra, Tarcisio. Una tempra fatta di spirito di sacrificio e di umiltà che è stata la sua ossatura caratteriale anche in campo. Da calciatore prima e da allenatore poi, non approdando però mai su una grande panchina. «Si faceva un fagotto, lo si riempiva di fieno ed era il nostro pallone - ricordava spesso, raccontando le sue umili origini -. Già la pallina da tennis ce l'avevano solo i benestanti, figuriamoci un pallone vero. Si giocava e si palleggiava con quella, e la passione è nata lì». Tarcisio Burgnich amava ricordare l'infanzia nella sua Roda, in Friuli, a un tiro di schioppo dall'Isonzo.
Umile nello sport e nella vita, tuttavia scaltro e quando serviva furbissimo, Burgnich ha fatto suoi gli insegnamenti del primo allenatore a Udine, Comuzzi: con un occhio e mezzo guarda l'uomo, con l'altro mezzo occhio il pallone. Esordì nell'Udinese, ventenne, c'era anche Dino Zoff, un segno del destino. Giocò stopper e terzino, una vita in difesa, metteva pezze nei varchi lasciati dai compagni, soprattutto metteva sempre la gamba. Ai mondiali del 1970 tentò di fermare Pelè quando saltò in cielo per colpire di testa e insaccare nella porta azzurra, «ma non potevo riuscirci -dirà poi lui Burgnich - perché in realtà stavo appena arrivando a marcarlo e non ero ancora in posizione, perché Valcareggi aveva cambiato le marcature in corsa».
In carriera, l'attaccante che lo mise più in difficoltà non fu l'imperatore brasiliano, bensì per sua stessa ammissione Ezio Pascutti del Bologna, e poi lo jugoslavo Dragan Dzajic, li detestava entrambi calcisticamente, gli sfuggivano come anguille. Burgnich giocò con tante squadre, l'esordio con la sua Udinese nel 1958, un anno da meteora nella Juventus, poi un altro anno al Palermo, quindi dodici stagioni con l'Inter dal 1962 al 1974, l'incontro con Helenio Herrera, personaggio che lui adorava e che gli spalancò le porte del mondo. «Stare con lui era come essere su un'astronave. Era sempre un passo avanti. Uomo sobrio, serio, era stato povero, ci esortava a non buttare via i soldi che guadagnavamo, ci insegnò a fare yoga per concentrarci».
Con l'Inter totalizzò 467 presenze in gare ufficiali, vincendo 4 scudetti, due Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali. A 35 anni, nel 1974, fu ceduto al Napoli con cui sfiorò subito lo scudetto arrivando a due punti dalla Juventus. L'anno successivo con i campani vinse la Coppa Italia e la stagione successiva la Coppa di Lega Italo-Inglese. Appesi gli scarpini al chiodo, fece il supercorso a Coverciano e si lanciò nella carriera di allenatore girando, tra le altre, le panchine di Bologna, Foggia, Lucchese, Cremonese, Salernitana e Vicenza. Non fu altrettanto vincente come da allenatore ma ben quattro club, Catanzaro, Genoa, Como e Livorno, lo richiamarono in panchina anni dopo la prima esperienza. A dimostrazione che la Roccia non ha mai smesso di farsi apprezzare per le sue qualità, umane ancor prima che calcistiche.