Giovani monaci in Bhutan - Unsplash
Viene in mente Jacques Dupuis a leggere questa nuova prova reportagistica di Erika Fatland. Già, perché il tour asiatico tra Cina, India, Pakistan, Tibet, Nepal e Bhutan che la reporter norvegese compie in La vita in alto. Una stagione sull’Himalaya, appena edito da Marsilio (pagine 688, euro 21,00), dà conto di quella pluralità religiosa che aveva così tanto colpito il gesuita belga dal fargli vergare, dopo anni di studio e riflessione, l’imprescindibile Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso( Queriniana). Testo nato proprio dalle peregrinazioni di Dupuis, in sella alla motocicletta, sù e giù per l’India, a confronto e scoprendo la complessità spirituale di un microcosmo come quello indiano, che ben si interfaccia con i Paesi che Fatland ha percorso in diversi mesi di girovagazioni a cavallo della catena montuosa più alta del mondo. Sebbene dichiari più volte di essere non credente, la giornalista e scrittrice nordica, autrice del precedente Sovietistan che l’ha fatta conoscere al grande pubblico, ha il merito di rappresentare con dovizia di particolari e senso di rispetto le diverse pratiche religiose che incontra: gli sciamani dell’animismo, i monaci buddisti, le tradizioni intuiste e quelle musulmane, il culto gianseista, le comunità cristiane dell’Assam. Laicamente ne riferisce usi, costumi, riti, figure, ma anche derive - come la pratica dei bon di confinare in una casetta autonoma le donne durante il loro ciclo mestruale perché considerate impure e non degne di far parte del consesso famigliare. Quello che ne emerge complessivamente è l’insopprimibile anelito spirituale che l’uomo possiede dentro di sé, quel senso religioso che assume diverse sembianze e forme, a volte ingenue a volte molto complesse, che poi si struttura in comunità e riti. Al di là di questo tratto, l’ampio reportage di Fatland ha il merito di condurci indirettamente verso alcune riflessioni non scontate: cosa distingue una nazione da un’altra? E una cultura da un’altra ancora? Dove finisce il “noi” e inizia il “loro”? Scrive Fatland: «I confini sono come i würstel – è sempre meglio non sapere come sono stati fatti». L’esempio clamoroso è quello tra India e Pakistan, che ad oggi è una linea di demarcazione internazionale quanto mai militarmente rischiosa e pericolosa, essendo entrambi gli Stati potenze nucleari. Anche la globalizzazione diventa qualcosa che, percorrendo Paesi così particolari perché segnati da culture millenarie e questioni geopolitiche aperte, Fatland tocca con mano: «Per le persone come me e gli altri stranieri che si rimpinzavano di birre e cappuccini nei caffè panoramici di Leh, negli ultimi anni il mondo è diventato più accessibile che mai grazie a biglietti aerei a prezzi stracciati e passaporti che permettono di viaggiare più o meno dappertutto. Per la gente del posto che per secoli ha attraversato valli e e valicato montagne per scambiare merci, invece, il mondo si è rimpicciolito e riempito di barriere, malgrado le strade e i mezzi di trasportano siano mai stati funzionali come adesso». Ogni tanto l’autrice norvegese sembra che si affidi alla verità del web, quando – arrivando in un posto nuovo – ammette di “googolare” sul suo mobile per sapere di più del posto dove è atterrata. La bibliografia che però accompagna il volume rende sicuro il lettore che, oltre a quanto ha visto e chi ha intervistato, Fatland si è rifatta a testi importanti per conoscere popoli e culture che sono sbocciati sull’Himalaya. Certo, anche ai migliori può capitare uno svarione storiografico come quello che segue: «Mohamud di Ghazna, il sovrano che portò l’Islam nella valle dello Swat, passò proprio da Peshawar, e duemila anni più tardi anche le armate mongolo di Gengis Khan seguirono il suo esempio». Inutile rilevare che «duemila anni più tardi» sia una cifra completamente sballata, se è vero che l’islam (perché questa mania tutta occidentale di mettere solo la religione coranica in maiuscolo?) non ha nemmeno 1700 anni di vita, ad oggi. Resta un grande affresco, quello della Fatland, di un terra misteriosa, percorsa dalla spiritualità che ha dato origine a tanti culti e dove sono attecchite e fiorite tradizioni spirituali millenarie, come il buddismo. Dove il turismo si scontra con la tradizione, dove la globalizzazione fa a gara con la tradizione, dove le religioni sono messe alla prova dall’ateismo di Stato. Prendiamo Drirapuk, “il monastero più alto del mondo”, siamo in Tibet. «Con le vertigini e il fiato corto per via dell’altitudine mi arrampicai per le scale e mi infilai nel tempio dipinto di rosso, che con mia grande delusione era solo una copia dell’originale. Erano arrivate fin quassù le Guardie Rosse, mosse dal loro ardore rivoluzionario, da un fanatico impulso devastatore – e da ordini ricevuti dall’alto. Dovevano aver impiegato almeno un giorno di cammino, armati di asce pronte a distruggere, frantumare, e vandalizzare. Nel 1976, quando finalmente la follia devastatrice si placò, degli oltre seimila templi e monasteri del Tibet ne restavano in piedi soltanto tredici». Ricco di cifre e segnalazioni di primati nei più svariati ambiti dell’umano e del naturale, di annotazioni sociologiche e intuizioni personali, talvolta pedissequo nel voler introdurre il lettore nei microcosmi che l’autrice incontra, La vita in alto consacra Fatland come una delle grandi reporter di oggi, alla scuola di Ryszard Kapuscinski (nel 2021 ha ottenuto il premio intitolato al giornalista polacco), per la sua capacità di empatizzare con popoli e culture diverse, restituendocene una descrizione appassionata e convincente.