venerdì 17 giugno 2016
Quando gli azzurri vincevano in camicia nera
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Nel ventennio fascista ci sono stati almeno tre lustri di dominio calcistico azzurro. Il regime imposto da Benito Mussolini era come se si muovesse in sincronia con la Nazionale di calcio e con il governo dello sport italiano, al quale dal 1925 aveva messo a capo il presidente del Coni Lando Ferretti. Ma l’epopea del calcio «virile ed ardito» ebbe il suo fischio d’inizio novant’anni fa con la nomina del “ras” Leandro Arpinati a numero 1 della Federcalcio. «Arpinati era uno dei pochissimi gerarchi che potessero permettersi di parlare liberamente al capo del governo», scrive Enrico Brizzi in Vincere o morire. Arpinati, romagnolo come Mussolini, applicò il suo integralismo al gioco del pallone, rifiutando la matrice societaria di “football club” degli odiati inglesi e dando linfa al movimento nazionale con un occhio di riguardo per i colori rossoblù del Bologna. Sotto la sua influenza, quella dell’Arpinati “anima nera” del pur forte squadrone del «Bologna che tremare il mondo fa», tra il 1925 e il 1941 i Veltri misero in bacheca sei scudetti, le due “Champions” di allora – le edizioni 1932 e 1934 delle Coppe dell’Europa centrale – e il titolo dell’Esposizione di Parigi del 1937. Un’egemonia continentale su sponda felsinea che nel calcio azzurro era iniziata con le Olimpiadi di Amsterdam nel 1928, quando la Nazionale salì sul podio (medaglia di bronzo) dietro alle due potenze sudamericane di Argentina e Uruguay. «Le fortune travolgenti del calcio fra noi, per il suo meraviglioso adattarsi al temperamento della stirpe, sono uno dei fatti salienti della ripresa sportiva italiana», scriveva nel 1928 Lando Ferretti. Ma quella del terzo posto alle Olimpiadi non era ancora l’Italia del suo grande condottiero, l’ex salesiano e tenente degli alpini Vittorio Pozzo. Il vero “Special one” – termine anglofono che Mussolini avrebbe censurato – del calcio tricolore, altro che Mourinho, è stato proprio lui: il commissario unico Pozzo, che dal 1934 al 1950 alla guida della Nazionale collezionò la cifra record di 64 vittorie e 17 pareggi su 97 incontri disputati dai suoi amati “ragazzi”. Il lavoro culturale con la squadra azzurra forgiò, prima di tutto eticamente, campioni adottati quasi come figli del calibro di Levratto, Baloncieri, Meazza e Piola. In un calcio autarchico anche nel mercato, dal momento che il ras Arpinati nel 1926 aveva dato il via libera al professionismo remunerato ma anche chiuso le frontiere agli stranieri (erano ottanta nella stagione 1925-1926, per lo più di nazionalità austriaca e ungherese), la Nazionale di Pozzo costruì le sue fortune iridate anche potendo contare sulla classe degli “oriundi”: Monti, Guaita, Demaria, Guarisi e Andreolo. Eroi di un calcio pionieristico ai quali quell’intellettuale prestato al pallone, con solidi studi in Svizzera alle spalle e continui viaggi di aggiornamento nella patria del football, il Regno Unito, insegnò prima di tutto l’arte del saper vivere e del condividere. Il tutto partendo dalla responsabilità: come nel Paese era stata affidata al Duce, così nel calcio richiedeva la concessione di pieni poteri al commissario unico. «Cominciai a convincermi che l’idea di una persona sola, che si basi beninteso, su concetti pratici e sani, porta a migliori risultati della somma delle idee di quattro, otto, dieci persone, ognuna delle quali, presa isolatamente, valga di più di quell’unica di cui parliamo», annotava Pozzo. Al bando dunque le commissioni tecniche e un solo uomo al comando dalla panchina. Ma questo dal 1929, dopo che cinque anni prima, alle Olimpiadi di Parigi (1924), i ragazzi di Pozzo si erano arresi ai quarti di finale alla Svizzera. Quella sconfitta, che poi si sarebbe rivelata salutare per le sorti del calcio italico, al momento venne accolta come un esonero rabbioso e popolare nei confronti del tenente Pozzo. Bombardato dalla critica rispose, da quel fine diplomatico che era: «Credo proprio che non esista al mondo argomento come quello di una formazione di una compagine rappresentativa per seminare la discordia tra le genti: ognuno vede le cose a modo suo». Ma il calcio dei “balilla”, a partire da quello più amato Peppino Meazza, era prima di tutto gioia di giocare e amor di patria. Così, più fedele al suo credo del fido cane Black che lo accompagnava nelle arrampicate alpine o nella stesura degli articoli per i giornali, quando nel 1929 Pozzo riprese le redini del calcio azzurro, per salvarlo da un possibile fallimento, lo fece con la consapevolezza di aprire un nuovo ciclo destinato a diventare leggendario. E resta scolpito sulla pietra miliare anche il suo “obbedisco” all’incarico di selezionatore che gli venne proposto da Arpinati: «Accetto molto volentieri, a patto che non mi venga dato un centesimo». Discorsi di certo avulsi dalla filosofia contemporanea. Ma torniamo alla storia e allo spirito di gruppo di quei ragazzi di Pozzo che fecero le imprese. Il loro cameratismo da camicia nera si tradusse nel ritiro di preparazione, un’invenzione dello stratega del calcio mussoliniano. Dall’Hotel Alpino di Stresa infatti vennero avviate le grandi manovre per la conquista del mondo. Ma nessuna demagogia nei sermoni di spogliatoio o segni di tacchetti che rimandavano al politichese, tant’è che il commissario rimarcava: «Non fare della politica con nessuno, tanto meno con i giocatori, e rimanere libero dai legami di ogni sorta, principalmente dai legami di carattere economico, per poter divincolarsi se necessario al momento in cui non si potesse puntare diritto allo scopo prefisso». Le mete raggiunte furono i due titoli mondiali di Roma 1934 e Parigi 1938 e, in mezzo, l’oro olimpico di Berlino 1936, in quei Giochi del Führer in cui era necessario presentarsi con calciatori dilettanti (o mascherati da tali, specie quelli che avevano avuto sporadiche apparizioni tra i professionisti). Ma gli azzurri del 1936, che Pozzo aveva selezionato seguendo i “Giuochi universitari”, erano «tutti studenti autentici e ragazzi di buona famiglia». A cominciare dall’occhialuto Annibale Frossi, studente in legge, che salvò la faccia all’Italia contro gli Stati Uniti infilando «d’astuzia il cuoio in rete» per l’1-0. Questo evitò l’uscita di scena ai quarti di finale ma non l’ira funesta del tenente Pozzo, che tuonò: «Non sono abituato a parlare a vanvera. Se pensate di essere venuti qui per fare quello che vi pare e piace, me lo si dica chiaramente. Io pianto baracca e burattini e torno in Italia dove mi attendono impegni ugualmente impegnativi e di maggior soddisfazione!». La sferzata ebbe un effetto dirompente sul gruppo, trascinato dalla difesa granitica degli juventini Foni e Rava, dal fosforo di Frossi e – in attacco – dal futuro medico Alfonso Negro e dal “vice-Meazza” Sergio Bertoni (che Pozzo convocò sempre anche se militava in B, nel Pisa). Rifilato subito un 8-0 al Giappone, gli azzurri eliminarono con un 2-1 quella Norvegia che, buttando fuori la Germania, aveva fatto infuriare Hitler, il quale minacciò la riduzione degli investimenti sul calcio. L’Italia arrivò alla finale serena, allietata tutte le sere nel ritiro olimpico berlinese dalla voce e la chitarra del “figlio del vento” Jesse Owens che ricambiò gli applausi degli azzurri ricordando, anni dopo: «Gli italiani ridevano più forte di tutti. Mi mettevano allegria». E con l’allegria nel cuore e il fascio littorio stampato sul petto i ragazzi di Pozzo si presentarono all’Olympiastadion contro i “cugini del Reich” dell’Austria che si avviava all’Anschluss (1938): la doppietta di Frossi decise una battaglia durata 120 estenuanti minuti, che confermarono il regime calcistico italiano su scala internazionale. Quello rimane ancora oggi l’unico oro olimpico nella storia del calcio azzurro. Così come dopo il secondo titolo iridato del 1938 dell’Italia di Pozzo abbiamo dovuto attendere il 1982 e la campagna di Spagna degli azzurri di Enzo Bearzot per tornare ad essere i padroni di quel mondo di cuoio, che per primi avevano conquistato i ragazzi in camicia nera.
 
Enrico Brizzi
Vincere o morire - Gli assi del calcio in camicia nera 1926-1938
Laterza. Pagine 376. Euro 22,00
 
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