Visti da lontano, dalle capitali dei grandi Stati, dalle metropoli industriali delle pianure, i confini appaiono come limiti invalicabili, muri che separano nettamente una nazione dall’altra. Noi da loro. Man mano che ci si avvicina, invece, si scopre che quella che appariva una linea netta in realtà è una sfumata area di scambio, un graduale fluire da un’identità all’altra senza stacchi che differenzino in modo inequivocabile questo noi e questo loro. Il confine non è il Brennero, ma l’Alto Adige “italiano” assieme al Tirolo “austriaco”; non il Reno, ma l’Alsazia “francese” assieme alla Renania “tedesca”.
La questione delle identità nazionali è tornata al centro del dibattito politico e culturale, in questi anni di incrinatura del processo di unificazione europea. E riporta alla questione, mai risolta, della definizione in termini oggettivi delle identità etniche e nazionali. Più che opportuna appare allora la riproposizione, da parte di Laterza (pagine 214, euro 20,00, con nuova prefazione di Marco d’Eramo), del fondamentale saggio Comunità immaginate. Origine e fortuna dei nazionalismi (1983, tradotto in italiano la prima volta da Manifestolibri nel 1996) del grande antropologo Benedict Anderson, scomparso nel 2015. Quel provocatorio “immaginate” non significa affatto immaginarie, né tanto meno fantastiche: sono comunità concrete, come concreto è il pensiero umano, individuale e collettivo, che le elabora. «È immaginata – spiega Anderson – in quanto gli abitanti non conosceranno mai la maggior parte dei loro compatrioti, né li incontreranno, né ne sentiranno mai parlare, eppure nella mente di ognuno vive l’immagine del loro essere comunità».
È questo elemento, al di là di ogni altra considerazione, a costituire il tratto comune dei sentimenti di appartenenza nazionale, cioè di appartenenza a un gruppo numericamente superiore alla cerchia delle conoscenze dirette di ogni individuo. Nessun uomo è un atomo isolato, ma appartiene a una serie di cerchi concentrici di gruppi che inizialmente sono basati sulla conoscenza personale: la famiglia prima di tutto, poi le comunità di lavoro, le comunità sociali, le comunità abitative... Cerchi che si intersecano e che via via si espandono fino ad arrivare là dove la conoscenza diretta lascia il posto a quella “immaginata”. Ogni italiano sa che altri sessanta milioni di persone percepiscono se stesse come italiane, come parte di una comunità della quale non hanno conoscenza personale: “immaginata”, appunto. Questo non significa che i sentimenti di appartenenza nazionale siano fole o chimere: poggiano tutti su elementi oggettivi. Noi italiani, per esempio, radichiamo la nostra coscienza nazionale prima di tutto sull’appartenenza linguistica, e poi su una tradizione storica, religiosa e culturale che percepiamo come comune. Questi elementi hanno una concretezza reale – l’area linguistica italiana coincide in gran parte, anche se non completamente, con la Repubblica – ma questi elementi oggettivi sono frutto di una scelta, generalmente inconsapevole, di quei caratteri che sono storicamente risultati i più adeguati a definire una nazione.
Ci sono, nel mondo, Stati con una chiara identità nazionale che prescinde interamente dall’elemento linguistico a noi italiani così evidente: si pensi agli Stati Uniti, unificati da una lingua di importazione, coloniale, così come il Brasile o l’Australia; si pensi per contro a Serbia e Croazia o a Gran Bretagna e Irlanda, che parlano la stessa lingua eppure hanno una percezione nazionale non meno forte dei Paesi unici depositari di un idioma. Altre volte gli elementi oggettivi adottati in una definizione di nazione sono geografici, come per esempio l’insularità dell’Islanda; altre volte sono religiosi (più nel senso di retaggio tradizionale che altro): è ciò che distingue, per esempio, i croati cattolici dai serbi ortodossi.
Il catalogo dei caratteri adottati come criterio di definizione nazionale è ampio, e a tal proposito sarebbe opportuna la ristampa anche di un altro saggio ormai da tempo non più disponibile nelle nostre librerie, Etnonazionalismo. Quando e perché emergono le nazioni di Walker Connor (Dedalo 1995). Ma va ricordato che tutte le affermazioni di nazionalità – il “sovranismo”, come si è tornato a dire in questi anni – hanno sempre un fondamento convenzionale. Sono una costruzione umana, e sono quindi soggette all’intervento razionale e disincantato della volontà; non possono essere assunti a totem inscalfibili, sui quali immolare non solo il dialogo politico, ma perfino la più elementare solidarietà.