Eugenio Borgna - Chiste
È accaduto a tanti di trovarsi un giorno, soli, su un sentiero di montagna e di percepire di colpo, attorno, il silenzio. Invece del quotidiano rumore, il silenzio. Allora forse ci siamo fermati un istante, stupiti da quel vuoto che pure ci fronteggiava come una presenza. Affascinati eppure inquieti, abbiamo provato, a inoltrarci nella solitudine delle vette. Ma non ci ha preso, presto, un po’ di paura? Come nel tuffarsi in un oceano ignoto. Magari allora abbiamo afferrato il cellulare, siamo andati sul web a cercare voci, parole, musica, a rassicurarci. Intuendo però un mondo appena sfiorato, in cui si vorrebbe avere il coraggio di avventurarsi. Di questa solitudine, della “bella solitudine” è un elogio l’ultimo libro di Eugenio Borgna, (“In dialogo con la solitudine”, Einaudi, 12 euro). Audace, in anni di pandemia e reclusione, chiamare “bella” la solitudine. Ma c’è una profonda differenza, spiega il grande, anziano psichiatra, tra l’isolamento che in molti hanno subito, e la solitudine di cui qui si parla. L’isolamento è l’essere, senza volerlo, relegati: sono le porte chiuse dei condomini serrati nel Covid, o certe stanze di ospedale, o di ricoveri per vecchi; o il sentirsi soli nel mezzo di una folla, o fra i propri stessi familiari.
La solitudine in cui Borgna ci introduce è invece quella agostiniana: «Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas». Non volere uscire, ritorna in te stesso, nell’uomo interiore abita la verità.? È dunque la solitudine dei monasteri, ma non solo. Leopardi scrive: «La solitudine rinfranca l’anima e ne rinfresca le forze... Ella ci ringiovanisce... Ella rinnuova la vita intera». Il silenzio dell’ermo colle è la porta che apre, per il poeta, un mondo interiore in cui tornare a provare affezione al vivere. Testimonia Borgna: «Questo temporaneo allontanarsi dal mondo, questo rientrare nella propria interiorità ci aiuta a frenare il fluire ininterrotto della vita, lo scorrere febbrile dei giorni e degli anni, la cascata inarrestabile delle parole banali e inutili, e a ripensare invece alle emozioni profonde e alle parole intessute di tenerezza».
Provare, ti dici, bisognerebbe. Perché anche tu sei così stanca di rumore, e di parole come svuotate dall’essere troppo ripetute. (Ma tutto rema contro questo desiderio, e tutti ti dicono che fa male, stare soli. E se poi è una solitudine cercata, non è forse un estraniarsi, un egoismo contrario all’umano dovere di solidarietà?) Netto, a fronte di questo ragionare consueto, Eugenio Borgna: «La solitudine è comunione, apertura agli altri, e non c’è comunicazione che non abbia come premessa la solitudine che dia ali alle parole, e le riempia di contemplazione e silenzio». La solitudine, aggiunge il professore, è esperienza interiore che aiuta a dare un senso alla vita di ogni giorno, e «consente di distinguere ciò che è essenziale da ciò che non lo è». Che cosa desiderabile, pensi, questo spazio, questa cella salva dal chiasso, in cui stare in ascolto: di sé stessi, dei ricordi, dei volti perduti, del volto del prossimo, degli occhi mendicanti un aiuto che normalmente cerchiamo di evitare. In ascolto, più che d’ogni altra cosa, della propria speranza.
In ogni situazione, anche nella peggiore. Viene in mente Etty Hillesum, la giovane ebrea olandese morta ad Auschwitz: «Le minacce e il terrore – scrive – crescono di giorno in giorno. M’innalzo intorno la preghiera come un muro oscuro che offre riparo, mi ritiro nella preghiera come nella cella di un convento, ne esco fuori più “raccolta”, concentrata e forte. Questo ritirarmi nella chiusa cella della preghiera, diventa per me una realtà sempre più grande». Parole scritte dal fondo più tragico del Novecento. Ma non potrebbero valere anche nell’isolamento estremo di certi reparti Covid, dove in tanti sono morti soli, o nelle stanze di ospizi per anziani, sbarrati per mesi ad ogni visitatore? Ricavare una cella in sé, un’oasi, anche nel deserto, cui attingere acqua e forza. E speranza: per sé e per gli altri. Perché siamo a secco di speranza, in molti, in questo tempo, e spesso dai tg e dal web l’eco di guerre e miserie lontane e vicine sono tante e tali, che ci atterriscono. Occorre, certo, sapere, essere consci, ma non lasciarci travolgere dal ripetersi ossessivo di immagini e parole. (È ancora Etty Hillesum, straordinariamente maturata, nei suoi giovani anni, dal dolore, che scrive: «Io detesto gli accumuli di parole. In fondo, ce ne vogliono così poche per dire quelle quattro cose che veramente contano nella vita»). Un savio uso delle parole, una capacità di innalzarsi attorno quasi una segreta cella: «In te ipsum redi...».
Un aprirsi di stanze agostiniane: memoria, affetti, gratitudine. Ma, non solo: chi abita nel fondo del silenzio che intimorisce fra le vette, chi è, che potremmo incontrare? È perché abbiamo paura di questo incontro, che accendiamo il cellulare? Come sarebbe bello, invece, osare la “bella solitudine”, la solitudine che, dice Isaia, «Fiorirà come i gigli, crescerà e germoglierà dappertutto». Si chiude il libro di Borgna desiderando quest’isola del tesoro, questo ungarettiano “porto sepolto”. Sapendo quasi già però che tu no, tu non puoi osare tanto. Tuttavia, si vorrebbe domandare: ci insegna, professore, a entrare in quella stanza?